Ho appena finito di leggere un bel libro che si intitola Storia naturale dell’occhio è di Simon Ings, edito da Einaudi.
Nel libro, che è molto articolato ed esaustivo, si parla non solo dell’occhio umano, ma dell’occhio o meglio ancora della vista, in senso più ampio, direi del senso del vedere.
Ci sono animali che vedono con la pelle, altri che hanno quattro occhi, qualcuno ne ha numerosissimi sparsi su tutto il corpo, qualcuno vede coi denti. Qualcuno vede a colori, qualcuno vede aldilà dello spettro umano, qualcuno al di qua. Insomma vedere è cosa varia e complessa. Un esempio interessante: i cani, i gatti vedono molto anche col naso, noi concentriamo di più le nostre sensazioni intorno alla vista come fanno gli uccelli. Quasi tutti i tipi di vista più che alle immagini sono interessate al movimento (anche il nostro occhio per vedere si muove continuamente).
È certo che senza luce non si vede e che il colore è per noi non necessario, quindi probabilmente la nostra capacità di vedere e gioire dei colori non dipende da motivi di sopravvivenza, ma da “errori” genetici, benedetti perché per esempio l’arte è frutto anche della visionarietà dei colori.
La storia dell’occhio è molto lunga, quasi tutti gli studiosi si sono interessati alla vista, al mistero e al miracolo di una struttura così varia e complessa. Si pensi che le prime teorie matematiche e geometriche sulla vista risalgono a Euclide.
Nonostante l’uomo ponga la vista al centro del suo universo sensoriale, vari esperimenti e anche drammatiche esperienze reali hanno dimostrato che chi è cieco dalla nascita o dalla più tenera infanzia, se “guarito” non sempre trae dei benefici. Nel libro si parla di una famosa musicista coeva di Mozart, Maria Teresa von Paradis, che riacquistò la vista per un certo periodo, ma nei suoi diari lasciò scritto che si sentiva più a disagio, meno felice di quando era cieca. La stessa cosa è riportata da altre simili esperienze. Perché dare la vista non vuol dire far vedere. Insomma vedere è anche essere educati nel tempo a guardare, giacché profonda è la differenza tra vedere tutto e guardare qualcosa, collegarlo a oggetti di cui s’è fatta esperienza, a un universo che si conosce attraverso la vista ma non solo.
Naturalmente è meglio vedere piuttosto che non vedere, ma certo la vista è parte di un insieme di possibilità di sensazioni e conoscenze del mondo. Vedere e guardare è agire su se stessi e sul mondo. Ormai i fatti accadono quando noi li vediamo, ma non è in fondo una novità se pensiamo che l’etimologia della parola storia è, nella lingua indoeuropea, vedere. Bisogna dunque essere educati a vedere. Si vede certo con l’occhio e la retina, ma poi subentra il cervello e anche le emozioni, il cuore.
Vedere è non solo fotografare tutto quel che c’è, ma filtrare la realtà, avere informazioni veloci sul mondo in modo economico per la mente. Solo quel che vogliamo vedere poi resta nella memoria, ci serve effettivamente. Un esempio divertente?
Uno psicologo sperimentale americano chiese a dei volontari di osservare un incontro di basket tra due squadre una con la maglia nera e una con la maglia bianca. In particolare i volontari dovevano contare i passaggi.
Ebbene un gran numero degli spettatori, presi dal loro compito, non si accorsero che nel campo si muoveva un finto gorilla alto due metri.
“E non è dunque ironico il fatto che in 538 milioni di anni di selezione naturale, la vista si sia evoluta da una semplice cellula fotorecettiva, attraverso numerose variazioni, generando innumerevoli modi diversi di vedere per giungere alla fine a diventare il senso dominante della specie dominante del pianeta, un animale che vede soltanto ciò che vuole vedere?” Con questa domanda in apparenza ironica, in realtà serissima si chiude il libro di Ings.