(Da Il Venerdì di Repubblica, 27 maggio 2011)
Il riassunto migliore lo fa Jie, ultimo banco a sinistra: «Cos’è cambiato? In prima avevamo le ore di informatica, adesso non ce le abbiamo più». Terza D della scuola media Alberto Manzi di Roma, dove la bohème del quartiere Pigneto sfuma nel popolare Prenestino. Su sedici alunni sette figli di stranieri.
Il ragazzino cinese con occhiali e capelli a spazzola colpisce e affonda con una frase sola la riforma Gelmini. Quella dei tagli agli insegnanti, dell’accorpamento delle classi, della scuola come impresa. Categoria-feticcio del berlusconismo, quest’ultima, punta di sfondamento del modulo educativo delle «tre I», con inglese e internet. Peccato che, tra gli 8 mila docenti fatti fuori quest’anno dalle elementari, metà siano proprio gli specialisti della lingua di Shakespeare. Quelli che dovevano attrezzare i nostri figli per la globalizzazione. Per loro non resta che andare a ripetizione dai compagni bangladesi, filippini o comunque anglofoni. Almeno sino a quando l’altra idea del ministro dell’Istruzione, mettere un tetto del 30 per cento agli immigrati nelle classi, non toglierà loro anche questa chance. Per quanto riguarda web, alfabetizzazione informatica e tutta l’enfasi sull’economia della conoscenza, rimandiamo alla felice sintesi del giovanissimo sino-italiano.
Scrivere dei problemi della scuola è un po’ come affrontare un tema dal titolo «brevi cenni sul mondo». Ci sono così tanti gradi, dall’asilo all’università, differenze geografiche, peculiarità e complicazioni d’ogni genere che qualsiasi prospettiva risulta arbitraria e parziale. La nostra ricognizione, prima di arrivare nella capitale, parte da Reggio Emilia.
È qui che insegna il maestro Giuseppe Caliceti, autore del recentissimo Una scuola da rifare. La sua critica alla riforma non potrebbe essere più radicale. «Prima avevamo la scuola primaria migliore d’Europa» dice, «oggi è la tredicesima, stando all’Ocse». A sentir lui il ministro, tra bugie, mezze verità e cortine fumogene (il grembiule, il 7 in condotta, etc), avrebbe preparato il terreno per lo smantellamento. «Quando dice che gli insegnanti costano troppo non ricorda che da noi, a differenza degli altri Paesi, anche quelli di sostegno ricadono sul conto dell’Istruzione. E ciò falsa ogni confronto. Ha poi tolto soldi alle scuole pubbliche, aumentandoli alle private senza però ricordare che, sempre per l’Ocse, in media i loro studenti sono meno preparati degli altri. Alla faccia del merito…».
Ciò che gli va giù meno di tutto, mentre parliamo in una libreria così bella e accogliente che sembra di stare in Scandinavia, è l’aver sperperato un patrimonio ideale, tra i pochi articoli culturali da esportazione rimasti. E per farmi capire meglio mi porta in visita a Reggio Children, la matrice di quegli asili d’eccellenza che nel ‘91 si erano guadagnati la copertina di Newsweek sulle «10 scuole migliori del mondo». Negli ex-stabilimenti dei formaggi Locatelli, oltre alle aule di varie classi delle materne, ci sono mostre e seminari su quella «pedagogia popolare» che dappertutto ci invidiano. È un giorno come un altro e in pellegrinaggio c’è una comitiva di spagnoli e una di rumeni. Ogni anno passano di qui circa 20 mila persone, «una delle fonti di turismo più significative della città» ricorda l’organizzatrice Sara Annigoni che si inorgoglisce per la collaborazione con Harvard e si deprime per i più rari rapporti con gli atenei italiani. Spiega: «Nelle nostre classi ci sono due docenti e un atelierista, che si occupa delle materie espressive, dalla pittura alla videoarte. Oltre a pedagogisti a turno».
È qui che Caliceti voleva arrivare: «Mentre le migliori università americane vengono a ispirarsi a quel filone che va da Don Milani a Gianni Rodari a Loris Malaguzzi, che ci hanno insegnato a mettere la scuola al centro della società e il bambino al centro della scuola, noi adottiamo il modello anglosassone, con i test Invalsi, le crocette, gli insegnanti-manager. Andiamo verso quelle charter school, private finanziate dal pubblico, che si sono rivelate una catastrofe per stessa ammissione del sindaco di New York che le aveva volute. È una follia! E non dica il governo che tutto l’occidente taglia perché la scure dell’America di Obama e della Germania della Merkel si è abbattuta su ogni settore tranne l’istruzione. Mentre noi abbiamo preferito aumentare il bilancio della Difesa. È sempre questione di scelte».
Le nostre ce le ricorda, documenti alla mano, il segretario generale della Flc Cgil Mimmo Pantaleo: «Intanto il Documento di economia e finanza 2011 prevede la diminuzione della spesa per l’istruzione dal 4,5% al 3,2% del Pil, entro il 2040. E siamo già ampiamente sotto alla media Ocse, intorno al 5,7%. Mentre si tagliano i fondi per la scuola pubblica (8 miliardi in tre anni, e 1,5 all’Università), quelli per le private rimangono inalterati. Anzi, Berlusconi ha lasciato intendere di voler concedere buoni anche per le paritarie». Conferma Emanuele Barbieri, che fu capo dipartimento del Ministero della pubblica istruzione nell’ultimo governo Prodi: «Nel decreto legge 112/2008 hanno previsto il taglio di 87.341 insegnanti e 44.500 unità di personale tecnico ausiliario e amministrativo. Gente che va in pensione o contratti in scadenza che non vengono rimpiazzati. A fronte dell’aumento, nello stesso periodo, di 66.440 studenti».
Le conclusioni le tira Mario Ambel, direttore della rivista Insegnare del Centro iniziativa democratica insegnanti: «Il taglio delle risorse significa la totale abolizione delle compresenze (due insegnanti insieme), la riduzione delle ore di lezione e grandi disagi nella mancanza del sostegno. Si torna a un’idea di scuola tradizionale, ma non più utile, che una volta riassumevamo con lo slogan “Un insegnante, una classe, una materia, un’ora”. Invece oggi servirebbero attività laboratoriali, lavori di gruppo e un’attenzione completamente diversa». Esattamente come succede a Reggio Children per le materne e, da poco, anche come sperimentazione in alcune classi elementari. Caliceti non si capacita: «Perché poi, al di là di tante chiacchiere, l’indicatore di qualità più efficace è quello del rapporto tra insegnanti e alunni. Più basso è, migliore è la scuola».
Con questa bussola torniamo a Roma. A guidarci qui è Silvia dai Pra’, autrice di Quelli che però è lo stesso, ironico ritratto di gruppo scolastico con precaria (lei stessa), sullo sfondo di un’Ostia pasolinianamente degradata e fascistamente trash. «Ho un dottorato e la scuola di specializzazione per insegnare. Nel 2008 mi hanno chiamata per un contratto annuale a ottobre. Nel 2009 a novembre. Nel 2010 niente: con i tagli non ci sono più soldi per rapporti lunghi, solo supplenze. Così faccio delle ore al Pigneto, altre in una media di Centocelle e altre ancora in una ragioneria all’Anagnina. Ma non mi lamento dei miei 850 euro perché nelle mie condizioni ci sono anche cinquantenni con famiglia. Grazie Gelmini!». Caliceti, dopo 25 anni di ruolo, di euro ne prende 1500: la metà, giura, d’un collega tedesco.
Con questi adolescenti la professoressa trentenne fa «approfondimento» di italiano, con lettura guidata dei giornali e facendoli ragionare di discriminazione su un blog. Nei due pomeriggi alla settimana sopravvissuti ai tagli. «Con un così sistematico ricorso ai precari tanti studenti non hanno alcuna garanzia di continuità educativa. Nel senso che ogni anno possono cambiare insegnante. Senza considerare il messaggio che si dà loro, ovvero che studiare non serve granché se produce adulti senza stabilità economica né professionale». Loro, da grandi, vogliono aprire un garage, fare il grafico pubblicitario, il pilota d’aerei e il poliziotto della scientifica. La terza D, però, non ha problemi di sovraffollamento.
Altrove la dieta Gelmini ha fatto ingrassare le classi: «Dai 20-25 di quando ho iniziato sino alle punte di 33 di oggi. D’altronde se tagli i docenti e vuoi coprire gli stessi ragazzi con quella copertina più corta devi chiedere loro di stringersi. Però a quel punto se qualcuno rimane indietro non c’è più il secondo docente a rallentare per lui. In un Paese che già aveva un tasso di dispersione scolastica altissimo». Il ministro, strenua sostenitrice del merito nonostante l’esame da avvocato in trasferta, preferisce celebrare il ritorno alle bocciature come prova ontologica di una ritrovata serietà. Neppure al conservatorissimo George W. Bush, mentre firmava il No Child Left Behind Act, sfuggiva l’importanza di non lasciare indietro gli studenti meno attrezzati. Per non dire della Costituzione, foglio strapazzato ma ancora in vigore, che all’articolo 3 ricorda come sia «compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
La scuola, concordano Dai Pra’, Caliceti e ogni loro collega di buon senso, è lì per quello. Servono le «tre I» e tutte le altre lettere di un moderno abbecedario che solo docenti numerosi, rispettati e motivati possono insegnare.