“Basta scavare in ogni piccolo fatto e diventa una miniera. Il banale non esiste. Ogni momento è infinitamente ricco” (C. Zavattini, Il banale non esiste, Milano, Bompiani, 1997)
Non è semplice scegliere un’opera indicativa dell’intera produzione di Giovannino Guareschi, anche perché il campo d’azione di questo straordinario personaggio della Bassa è stato talmente vasto da risultare praticamente impossibile qualunque canonizzazione. Il modo migliore di presentarlo potrebbe essere la lettera che egli stesso scrisse nel 1964 ad una professoressa di un Istituto tecnico, che, sollecitata da una maturanda, voleva ragguagli su di lui.
Gentilissima Signora,
… per studenti che affrontano 1’esame di abilitazione, può risultare “controproducente” includere il mio nome tra gli scrittori contemporanei.
II massimo che mi è stato concesso in Italia è di essere “contemporaneo”, ma nessun critico o nessuna autorità nel campo delle Lettere m’ha concesso d’essere uno scrittore. Probabilmente, hanno ragione loro. Se poi si consideri che mi sono macchiato – nei confronti dei giornalisti e degli scrittori – della criminosa scorrettezza di aver avuto notevolissimo successo in Italia e all’estero è chiaro che la mia posizione non potrebbe essere peggiore. Presentare il mio nome fra gli scrittori contemporanei può essere fatale per un esaminando. Pensando ai dettagli, Le dirò che sono nato troppi anni fa a Fontanelle, un paese sparso fra 1’erba medica della Bassa parmense. Il fatto increscioso è avvenuto il 1 maggio del 1908 al primo piano della locale cooperativa socialista (non sono figlio di una cooperativa, però) e mia madre era maestra (insegnò per 49 anni) mentre mio padre si occupava di macchine agricole. Ho scarsi ricordi dei miei primi anni, ma sembra davvero che io fossi un personaggio molto riservato e mi industriassi a non mettermi in vista. Verso i sei anni, qualcuno però si accorse che ero nato e fu una scoperta sgradevole perché 1’uomo mi colse mentre svaligiavo un susino del suo orto. Non comprese, il brav’uomo, che io, essendo nato in una rovente atmosfera socialista, non potevo possedere un concetto molto preciso della proprietà privata. Mi trasferii nella stendhaliana città di Parma: ma io, lo confesso, non mi accorsi che si trattasse d’una città stendhaliana e qui frequentai le prime quattro classi elementari imparando quel poco e approssimativo italiano che poi doveva permettermi di scrivere articoli di giornale e libri. Mio padre, che era un fissato delle macchine a vapore, aveva stabilito che io diventassi ingegnere navale. Pertanto venni iscritto di prepotenza al locale Istituto Tecnico. Il primo anno mi riuscì perfetto. Infatti, mio padre non mi accompagnò in classe, ma mi abbandonò nel corridoio e io potei andarmene sul Lungo-Parma senza essere notato. Correva 1’anno 1918 e io lo lasciai correre. Anche perché era un anno difficile, tanto è vero che, il 4 novembre scoppiò la pace e incominciarono i guai. Durante quel primo anno d’Istituto Tecnico nessuno della scuola mi aveva notato. Mio padre aveva molto da fare e mia madre era convinta che non si può strappare un angioletto coi capelli alla bebè dalle gonne della signora maestra e buttarlo come un agnellino tra i lupi nell’inferno della scuola secondaria. II fatto che io dovessi ripetere l’anno venne accettato pacificamente. Ma il secondo anno m’andò male. Mio padre, il primo giorno di scuola, mi portò fin dentro 1’aula dove fui costretto a rimanere fino al termine della prima ora. Poi ritornai ai miei lavori nel greto del torrente: ma ormai era troppo tardi. La dannata professoressa di Lettere mi aveva notato e, non vedendomi più comparire nei giorni seguenti, incominciò a domandare ai ragazzi: “Ma quello con la frangetta, non viene più?”. Nella scuola, come nella vita militare, 1’unica regola valida per chi intende passarsela bene è di non farsi notare. Per questo, il secondo anno d’Istituto Tecnico, mi andò male. Mi lasciarono finire 1’anno e poi mi spedirono in collegio. Lì mi raparono a zero, mi introdussero a forza dentro una divisa che mi andava stretta soprattutto nel punto dove doveva essere “comoda” e ricominciai da capo. Ginnasio, adesso. Mio padre aveva litigato con un ingegnere e si era accorto che gli ingegneri sono tutti dei cretini. Perciò aveva stabilito che dovessi diventare avvocato. Per la storia: diventai un “ginnasiotto” formidabile e con voti incredibilmente alti arrivai alla fine della quinta classe come un trionfatore. Sempre per la storia il collegio è il Maria Luigia di Parma. Era stabilito che io frequentassi, sempre da collegiale anche le tre classi del Liceo. Ma ciò non risultò possibile per una questioncella amministrativa: 1’amministrazione del Collegio, infatti – nella sua grettezza quasi medievale – non accettava il pagamento della retta in cambiali. Frequentai le tre classi di Liceo da esterno con la spesa complessiva di lire due al giorno: una lira di caffelatte e una pagnotta di pane da una lira per passare il mezzogiorno. In seconda liceo commisi una grave imprudenza: io fino a quel momento, avevo praticato soltanto studentesse che allora conducevano un treno di vita molto sobrio e, coi compagni di scuola, parlavano soltanto di faccende scolastiche. Conobbi, invece, una ragazza “esterna” che, paga della sua licenza di terza elementare, si disinteressava completamente di cose scolastiche pur possedendo moltissime altre nozioni interessanti. Inoltre aveva vizi perversi come quello di fumare o di andare al cinema e, così, mi mangiava in fumo e fotogrammi pagnotte e caffelatte. Superato brillantemente a luglio 1’esame di Stato, la famiglia, con la scusa che ero “maturo” mi tolse 1’appannaggio delle due lire quotidiane. Allora mi iscrissi all’università e incominciai a lavorare per vivere. Così presi appunto il grave vizio di lavorare per vivere e non me ne sono ancora liberato. Provai una infinità di mestieri: elettricista, caricaturista, cartellonista, xilografo, scenografo, disegnatore meccanico, custode di depositi di biciclette. Non me ne riuscì bene nessuno e allora ripiegai sul giornalismo. Scrissi dapprima sulla “Voce di Parma”, poi sulla “Gazzetta di Parma”. Nello stesso tempo facevo la campagna saccarifera tre mesi ogni anno come aiutante portiere nello zuccherificio di Parma. Fui per un anno anche istitutore al collegio Maria Luigia dove tutti mi prendevano sul serio eccettuati i ragazzini a me affidati. La fortuna, però, mi aiutò perché riuscii ad evitare di frequentare 1’Università e potei affrontare la parte decisiva della mia vita senza essere ostacolato da lauree e diplomi. Frequentai il corso di ufficiale di complemento d’artiglieria di corpo d’armata a Potenza e andai a prestare il servizio di prima nomina a Modena, nel 6° Reggimento, comandato allora dal colonnello Marras, che poi diventò generale e Capo dello Stato Maggiore. Io, invece, arrivai fino a tenente e tenente sono ancora. Finito il servizio militare, mi trasferii a Milano dove rimasi 25 anni. Stavano mettendo in piedi alla Rizzoli, un settimanale umoristico chiamato “Bertoldo”. Riuscii a infilarmi nel gruppo che comprendeva nomi importantissimi come Mosca e il grande Marotta. Lo stesso Saul Steinberg, oggi il più celebre disegnatore umorista degli Stati Uniti, uscì dal Bertoldo. Per cause indipendenti dalla mia volontà, scoppiò la guerra mondiale. Io ero stato fascista dal 1922 quando avevo 14 anni: venni arrestato nel 1942 dai fascisti per aver comunicato al rione Gustavo Modena, Ciro Menotti, Castelmorrone ciò che in quel momento pensavo di tutta la faccenda. Per salvarmi dal processo, mi fecero richiamare: l’8 settembre del 1943 fui catturato dai tedeschi che gentilmente mi domandarono se preferivo continuare a combattere insieme a loro o se preferivo essere mandato in campo di concentramento. Risposi che avevo deciso di continuare la guerra per conto mio e, così, mi trovai in un campo di concentramento presso Varsavia in Polonia. Dicono i miei compagni di prigionia che mi comportai molto bene in quei 19 mesi di prigionia. Può anche darsi. Quando vennero gli inglesi a liberarmi ero 46 chili compresi gli stracci che indossavo, i pidocchi, le pulci e gli zoccoli di legno all’olandese. Poi gli americani mi liberarono dagli inglesi e, dopo sei mesi di attesa, potei tornare a casa dove trovai che una sconosciuta aveva occupato il mio letto: si chiamava Carlotta ed era nata due mesi dopo che ero stato catturato dai tedeschi. Mi rimisi subito al lavoro: riconquistato il mio appartamento di Milano occupato da quelli che avevano vinto la guerra, fondai assieme a Mosca e Mondaini il Candido. Incominciai a rompere seriamente le scatole alta gente e continuai imperterrito anche dopo aver ricevuto una condanna a 8 mesi di carcere per non aver trattato con sufficiente rispetto il Presidente della Repubblica. Poi inciampai contro un pezzo grosso oggi defunto e monumentato e mi feci, nel Carcere S. Francesco di Parma, 13 mesi di galera: e, a onor del vero, ricevetti un trattamento che solleticava molto il mio orgoglio perché mi vedevo considerato alla stregua dei più stimati professionisti in rapine, furti con scasso, violenze carnali, omicidi eccetera. Trascorsi i miei sei mesi di libertà vigilata mi trasferii a Roncole dove abito ancora assieme ai miei due figli e alla mia unica ma sufficiente moglie. Soprassiede a tutto, si capisce: un po’ come il’ sole che illumina e scalda ogni cosa ; dall’alto dei cieli. Amen. Fra una disgrazia e l’altra, ho scritto alcuni libri: “La scoperta di Milano”, “Il destino di chiama Clotilde”, “Il marito in collegio” (anteguerra). “La favola di Natale”, “L’Italia provvisoria”, “Don Camillo”, “Lo Zibaldino”,` “Diario clandestino”, “Don Camillo e il suo gregge”, “Corrierino delle famiglie”, “Il compagno Don Camillo”. Questi libri sono stati tradotti in tutte le lingue principali (anche in “Braille” per’ ciechi) eccettuata la italiana ed è forse questo che i critici italiani non hanno preso in considerazione i miei scritti. Ho scritto anche sceneggiature tratte miei libri e poi rovinate irrimediabilmente dal cinema. Adesso sono seduto alla macchina scrivere: in mutande perché fa caldo, fiero. Ho un’ora di più di quando ho incominciato a scrivere questa lettera: però non mi sento vecchio. .. Detesto i tifosi anche se un atteggiamento del genere è assai impopolare … Fisicamente mi presento come un uomo con i grossi baffi. Sono sviluppato più nel senso verticale che in quello orizzontale. Pertanto sono più alto che largo … Dimenticavo l’hobby. Tutti hanno un hobby e il mio è originalissimo, perché ho l’hobby di non avere un hobby. Non mi piace viaggiare, non pratico nessuno sport, non credo nelle vitamine, in compenso credo in Dio. Sono profondamente grato ai miei genitori di avermi messo al mondo e gratissimo sono al Padre eterno perché non m’ha fatto né peggiore né migliore di quello che sono. Io volevo essere esattamente così come sono. Diverso di così mi andrei largo o stretto.
1938-1939.
La saga di Don Camillo, senza dubbio, è la più nota e tradotta in tutte le lingue principali, ma occorre considerare, per meglio comprenderla, i libri dell’anteguerra e, tra i più significativi, La scoperta di Milano. Nel maggio del 1939 Giovannino Guareschi viene richiamato alle armi. Dopo vari spostamenti giunge a Milano in licenza per un mese, riprendendo a pieno il suo lavoro. E’ un anno importante perché esce sul “Bertoldo” la rubrica Le osservazioni di uno qualunque (numero 29 del 13 giugno 1939). Giovannino e la sua famiglia diventano i protagonisti di una ‘saga epica’ che durerà trenta anni, un’autobiografia familiare che parte dalla realtà per superarla in una dimensione surreale e talvolta grottesca. Un unicum nella letteratura del Novecento. La scrittura fin da subito acquista una valenza simbolica: ogni avvenimento porta una novità che si rivela nell’apparente banalità dell’uomo qualunque, con un figlio e una moglie qualunque senza pretese di sorta. Si intravede già una costante dell’opera di Guareschi: la materia della narrazione si origina dalla realtà, che lo scrittore annota scrupolosamente e racconta in maniera “personalissima”. Guareschi mette a punto labirinti linguistici, sperimenta giochi di parole, mescola registri differenti. Uno tra tutti l’esempio della rubrica La mia grammatica:
“Fernando non è un gerundio. Se Fernando fosse un gerundio, si direbbe; io ferno, tu ferni, egli ferna, noi ferniamo, voi fernate, essi fernano. Scusate: essi fernano. Ah, gli zozzoncelli”.
Giovannino impara inoltre ad organizzare sulla pagina forme narrative umoristiche e vignette perché la sua produzione è composita: la formula della rubrica fissa e del tormentone sono meccanismi fondamentali che ricorrono in tutta la sua produzione. In alcuni punti pare descrivere a parole le sue vignette in un intrigante alternarsi di linguaggi. E al centro della narrazione una Milano surreale protagonista della vicenda filtrata dallo sguardo curioso di un provinciale impacciato che racconta le sue lunghe giornate di solitudine quando la moglie se ne va in vacanza o la sua ossessione per la bilancia visto che si scopre ancora più grasso. Tra le pieghe di una scrittura lieve e ironica si cela il riscatto di una quotidianità grigia talvolta drammatica resa significativa dall’ironia: la piccola cronaca, quella che i giornalisti trascurano, riflette i sentimenti, i desideri, i malumori dell’uomo qualunque. Ma le faccende quotidiane sono presto stravolte dalla Seconda guerra mondiale che scoppia nel settembre 1939 e allora l’umorismo serve per allontanare l’angoscia del conflitto, per allentare la tensione, è una potente “arma di difesa”. Dietro il gioco linguistico si fa strada sempre più la consapevolezza di una realtà in cui ogni aspetto ha il diritto di essere considerato non appena per il gusto del puro divertimento, ma perché segno di altro. La spregiudicatezza antiletteraria di Giovannino parte da qui, da questo gusto della parola, del segno grafico, dal desiderio di rendere tangibile attraverso un’espressione artistica (vignetta, racconto, satira che sia) un pensiero che assume la connotazione del ritratto di un momento, di un personaggio o di una vicenda significativa. La proposta di quella strana “famiglia del Bertoldo”, che traspare evidentemente sia nei testi e nelle vignette sia nell’adozione di stili e strutture semplici, antiretorici e surreali, consisteva nello svecchiare e sviluppare, attraverso l’umorismo, un discorso critico sulle retoriche e le mistificazioni della realtà. Lo stile netto ed essenziale, la narrazione concisa e le immagini semplici ed efficaci contrastano con l’insignificante oratoria di regime. Lo stile di Giovannino oscilla tra tradizione e innovazione, realismo e surrealismo. L’attenzione dell’autore si concentra sul rapporto fra titolo, illustrazione e didascalia: il linguaggio iconico e quello verbale si completano a vicenda, legandosi indissolubilmente in tutta la sua produzione: basti pensare al fatto che molti racconti di don Camillo sono corredati da disegni introduttivi, ma anche il Guareschi di Piccolo mondo borghese immagina ciò che scrive e ancora di più il Giovannino del lager come testimonia il Grande Diario. Non si può parlare dello scrittore senza considerare la sua attività nel giornalismo e nella grafica: il suo umorismo passa necessariamente attraverso queste esperienze che si radicano nel “Bertoldo”, ma ancor prima nei giornali realizzati quando frequentava il Liceo in collaborazione con C. Zavattini nei quali riesce meglio che altrove ad esprimere il gusto per il surrealismo.
La scoperta di Milano
Di lì a poco pubblicherà La scoperta di Milano (1941) testo in cui emerge una conoscenza fantasiosa, fiabesca e surreale della città. Romanzo sconosciuto per lo più al pubblico, riassume meglio di ogni altro la sintesi tra le direttrici stilistiche di Giovannino degli anni del Bertoldo e preannuncia alcuni nuclei tematici delle opere successive. L’amico G. Mosca scrive nella prefazione:
“Il presente volume è opera di uno scrittore vero che conosce la tecnica della lingua, dell’umorismo e del sentimento; che applica alla perfezione l’arte degli effetti e dei contrasti; che è padrone perfino delle regole della fantasia (la quale sino ad oggi non aveva regole), e le applica matematicamente, abbellendo e trasformando la realtà proprio nel momento e nel punto preciso in cui essa va abbellita e trasformata” .
L’incipit dal carattere epico con un improvviso flashback narra il ritrovo di sette misteriosi personaggi in una piazzetta solitaria: un uomo e sei signore, mentre le finestre sono sbarrate e la gente dorme. I sette singolari personaggi sono il Tempo, la Morte, la Vita, la Bugia, la Speranza, la Verità e la Fortuna: sono tutti intenti a guardare un bambino che poi diventerà il ladro della bicicletta dell’autore, un tredicenne oriundo milanese. Un incipit fiabesco e straordinario dove interviene anche il Destino immortale così decisivo da far esclamare alla Vita:
“Noi non siamo che mezze calzette che non contano un fico”.
Tutto il romanzo è percorso dalla parola Destino, che si carica di significati nuovi e grevi forse presaghi di cambiamenti: la vita si riduce ad una ruota che gira sempre più veloce e che trascina l’uomo.
“Bisogna girare, girare fino a quando la ruota vorrà. Margherita io penso che la vita si riduca ad una faccenda così”.
“Il tempo fugge rapido in questa straordinaria città, e non fai in tempo a riporre l’abituccio di tela che già è l’estate dell’anno venturo”.
L’espressione: “E’ un uomo appassionato al proprio mestiere”, equivale all’espressione: “E’ un uomo appassionato alla propria gobba”. Un entusiasmo esiste, in un mestiere, fino a quando detto mestiere offre qualcosa di nuovo … Ma poi, quando questa strada sia nota perfettamente o la si debba rifare ogni giorno e in ogni stagione, ecco la noia subentrare all’entusiasmo. Allora il mestiere diventa come la condanna del destino …”
Traspare un pessimismo radicale che considera la vita come un affare in perdita. Ma il lato involontariamente comico è sempre offerto da una buona spalla come Margherita, la ‘dolce signora che lo rese padre’, i cui pensieri diventano semplici e che si aggrappa alle piccole cose di casa.
“Quando questa ruota s’è messa a girare in un senso, non si può più fermarla per farla girare in senso contrario … Non ti lamentare Giovannino … Oggi tu possiedi un piccolo mondo tutto tuo con tante cose tutte tue”.
In questo mondo surreale e nel contempo autobiografico intervengono oggetti parlanti, le signore a pera ‘solenni come monumentesse’ che ricordano tanto le vedovane delle sue vignette, l’Angelo Custode Giacinto e la vecchia signora Flaminia, a cui scrive e si raccomanda mentre tutti dormono (avverranno sempre azioni straordinarie durante la notte nelle opere di Guareschi, fantasmi che si materializzano, sogni di Carlotta che salgono al cielo).
A un tratto ti trovi al cospetto del Duomo e ti stupisci che sia senza il regolamentare panettone davanti, come nei cartelli pubblicitari …
Nelle domeniche estive, quando non vado a spasso in automobile sull’autostrada, faccio quattro passi in Galleria. Mi commuove tanto lo spettacolo delle signore a pera sedute ai tavolini dei caffè più importanti del centro. Le signore a pera sono bellissime (io parlo di pere capovolte, con la parte del picciolo in basso) e sono altamente decorative. Sono grasse, alte, coi capelli ben dipinti di giallo, di rosso o di nero, con pesanti anelli alle dita, con grandi cappelli in testa … Dalla cintola in su, le signore a pera emergono dal tavolino e l’opulenza del seno trabocca sopra la tovaglietta e contende lo spazio vitale alla tazza del tè e al portacenere pubblicitario. Solenni come monumentesse le signore a pera guardano il mondo attraverso l’occhialino, sprezzanti di quanto avviene alle pendici del loro immenso seno … E alle volte si alzano e se ne vanno altere verso l’uscita della Galleria senza accorgersi che il tavolinetto è rimasto loro incastrato in qualche anfratto del seno e camminano col tavolino davanti fino a quando il solito gentiluomo di passaggio non le avverte cortesemente: “Signora vi è rimasto il tavolino attaccato davanti … Signora, vi è rimasta la poltrona attaccata dietro”.
Tutta la realtà ‘diventa una miniera’ dove ogni particolare assume un significato straordinario e anche le angosce o i dolori sono illuminati da un’ironia surreale che reca in sé il senso di una misteriosa presenza che fa le cose.
L’ultimo capitolo viene introdotto in questo modo:
“Giovannino con imperdonabile cattivo gusto, e allo scopo di terminare in modo nostalgico la sua storia, approfitta dell’assenza di Margherita e del suo mascalzoncello per allontanarsi dalla vita e narra le malinconiche avventure della sua anima. La cosa però fa sospettare l’artifizio”.
Poi, dopo aver descritto la morte come lo strappo di un dente, un dolore breve e acuto seguito da un senso di leggerezza enorme, dice:
“Appena uscito ho sospirato con soddisfazione: “Il più è fatto”. Poi ho guardato con interesse l’altro me stesso”
Sono parole che rimandano inevitabilmente alle pagine del Diario Clandestino in data 29 novembre, all’ episodio intitolato Finalmente libero. Giovannino finisce nel lager dal 1943 al 1945 e lì ogni fatto diventa carne e sangue. E anche l’ironia si rafforza, acquista una consistenza nuova, diventa segno di conversione radicale senza più l’ambiguità dell’artifizio o della tecnica: è l’arma di difesa più profonda ed efficace nell’inferno del campo di concentramento.
“Mi volsi e vidi che ero uscito da me stesso, mi ero sfilato dal mio involucro di carne. Ero libero. Vidi l’altro me stesso allontanarsi e con lui si allontanavano tutti i miei affetti”.
Mi fa piacere che si parli di Guareschi: è un autore che va “sdoganato”.
Con una vita ricca di esperienze, quanto di contraddizioni è stato imbalsamato in un quadro dalla cornice retorica e dalla tela sfumata di tanti ( troppi!) colori confusi. Guareschi é rimasto prigioniero della figura di don Camillo, avendo tracciato un discutibile e discusso percorso di catto-comunismo. Invece va scoperto e letto, anche in classe, il suo Diario di prigionia: sono pagine forti, dolorose, sincere, mai sentimentali ma piene di realismo, ironia, umorismo dove possibile.
Colpisce la sua voglia disperata di NON odiare nessuno, il suo bisogno di pace in un mondo perverso. Sono 19 mesi vissuti in modo consapevole, lucido fino al paradosso.
Anche la Scoperta di Milano è un gran bel libro, poco noto, forse amato solo dai milanesotti un po’ romantici!