una volta era tempodisogni, atharva veda
(lo dico dum medium silentium tenent omnia
mentre oggi allo specchio contemplo solo
unha boca sen respiro, ollos sen visións,
orecchie sorde sulle vegetazioni sommerse del niente)
tremendum, fascinosum tras as tebras vía abrirse
o mar de cristal, mentres o sol durmía baixo
terra, che superava le bestie di porpora,
e le loro lingue sulle cinque acque,
e mi sentivo preservato tra le fiammelle degli astri
mentre il sole dormiva sottoterra.
“ekam iyoti bahudha vibhati
luce sola si mostra multiforme”
diceva sibilla riprendendo vita,
l’edera di nuovo scivolava dall’acanto,
ogni cosa rinasceva spontanea
e vibrava d’orgasmo nella terra
terre mari profondi cieli senza fine
1.
ma ora l’universo è la fortezza bastiani.
dopo gelo e punizioni, inizia la lunga attesa.
o meu camiño non coñece retornos,
é o espello que non consigo mirar.
sono drogo, il tenete giovanni drogo, prototipo di umanità
di uomini-donne che vanno verso la condanna fatale,
e lasciano la madre-archetipo del sonno contro la fuga del tempo.
un posto antico, waste and void, mura fatte di buio
nella striscia gialla della fortezza,
dove attendo il grande attacco tartaro
che riscatterà la mia esistenza.
il suono di uno zoccolo, la mia ombra passata
arriva e mi guarda, seria, prima di stringermi la mano.
anch’io tra poco sarò l’ombra di qualcun altro,
e andrò da lui nello stesso modo.
ma l’ombra adesso mi parla del più e del meno,
di frontiere morte, vecchie, del grande deserto incomprensibile,
dei tartari leggenda di un tempo.
dopo la fortezza è il vuoto di corvi davanti a montagne
lontane e altissime, al deserto di pietre del regno del nord.
nessuno è mai entrato in quel nulla.
la fortezza è l’anima che guarda il continente di sabbia.
dietro la roccia che vedo alla finestra (visibile dopo la parola magica)
sento il tramonto, e rimando la partenza
per colpa della luce di neve in quei sassi bianchi.
foreste torri bianche vulcani fumanti, genesi primordiale
che richiama l’alma archetipica di vite passate.
de tantos tipos de soedade ningunha me abonda,
síntome abandoado do mundo.
mentre mi tiene compagnia il gocciolare dell’acqua.
la cisterna è rotta, una goccia d’acqua mi trattiene
dalla fuga nel sonno, poi vedo un cavallo, lungo la strada bianca.
m’addormento.
continua il rito delle regole dentro la terra gialla
della fortezza (siamo schiavi nel seguirle, schiavi nel calpestarle),
siamo soldati che giocano con le armi dentro la scacchiera,
il cielo ascolta le trombe senza capire
se siamo fantocci o statue chiuse di stenti.
ci sono dentro anche gli schiavi dei regolamenti,
e per loro esistono dunque solo leggi e regolamenti…
come per quelli che vedono solo le forme esterne,
e tutto è ridotto alla retorica della posata giusta o sbagliata,
del grazieprego? anche per loro passa
un tempo umano senza senso,
una campanella ogni mezzora, voci e richiami vuoti.
tutto sarà cancellato, del resto, dall’orologio,
prima immobile e poi in corsa all’impazzata
verso la fine, ma ancora non me ne accorgo.
stamattina ho incontrato un altro me stesso,
il sarto, solo un po’ più vecchio.
mi ha detto che non sarebbe rimasto con noi
nella fortezza, che non credeva nell’arrivo dei tartari.
ma di nascosto ridono di lui, ormai ripete le stesse parole
da quindici anni. anche lui aspetta, aspetta il futuro.
c’è chi fugge in città, io invece seguo il mio amico angustina,
il tenente angustina è il mio volto malato,
illusione di un talismano
nascosto nel labirinto di queste mura.
2.
neve sulle terrazze bianche, tempo fermo nelle ombre
che s’allungano al crepuscolo, nella geometria
di questa fortezza dai ponti sospesi. i ponti si alzano
sulle mura, sulle nuvole bianche e le trombe del giudizio.
decido di aspettare anch’io un nuovo destino, lontano
dai grigi pomeriggi infiniti e dai fantasmi di una volta,
scelgo il grigio e l’attesa della fortezza e basta,
i tagli sul soffitto e i rintocchi delle gocce dalla cisterna,
il vento forte della quarta ridotta, nel punto che confina
con la terra di gog e magog, il paese del nord.
in quest’attimo tempo e morte non mi riguardano,
non riguardano le pietre intorno a me, le pietre
della fortezza, che non parlano la mia lingua.
dopo tanti mesi in questa casa dell’attesa, ecco un sogno:
un ingresso, e un tartaro guardiano dalla barba lunga,
una lente d’ingrandimento che spia l’immobile ripetizione
di una formica, e il fiume che scorre veloce…
una luna pallida tra statuette d’avorio e fate velate in lenti vortici,
sono le parche di angustina, il tenente che anticipa il mio destino.
la bara-carrozza lo porta fuori, e dietro la corona di creature velate
che parlano con lui, il suo sorriso freddo mi guarda e parla con me
di un segreto, poi vedo ancora la luna pallida del salone.
sì, vedo dalla ridotta nuova la pianura del deserto
e non ha senso, ma lì si vede la macchia lenta che si muove…
solo canne nella nebbia?
un cavallo tartaro che dice la natura di quella terra?
alla fine senti solo un colpo di fucile, un soldato morto,
morto per nulla, solo per contentare regole burocratiche.
ma io continuo ad attendere il grande attacco tartaro
che riscatterà la mia esistenza.
nel frattempo il mio riflesso, angustina, è affamato di morte,
e gioca la sua ultima partita con se stesso…
le sue ultime parole sono su ciò che doveva farsi domani.
è il bianco il colore immobile che custodisce i corpi,
d’inverno è bianco il colore dei ruscelli di primavera
che scricchiola nei legni della fortezza, e l’armadio
che piange inutilmente di gioia con lacrime di resina.
e il cielo, che vedo da un vetro opaco, continua a brillare
per tutti, anche per gli abitanti lontani di sconosciute terre
che non conosco, di pagine che non consumerò mai.
quando torno nella casa di mia madre, in una pausa
prima di seppellirmi per sempre nel mio nulla della fortezza,
mi tornano in mente i pasti di certe domeniche
in cui bambino mi tuffavo in fatti dimenticati.
la città in cui torno è addormentata nel silenzio
di un mio amore nato morto.
anche maria, la mia storia di un tempo, non è più la stessa,
adesso è una persona seria, che parla di cose serie,
con la voce meccanica di chi non può più aspettarmi.
resta solo il mio nome in una pratica dimenticata da un superiore,
che magari guardandomi mi crede un imbecille.
sono tornato alla fortezza, ma la mia mente per ora è a stelle lontane,
alla fantasia di un palazzo estivo in riva al mare, tra musiche e persone amiche.
poi però all’improvviso il fiume in piena mi colpisce.
è il tempo, e mi fa tremare al pensiero che non riuscirò ad arrivare vivo
alla grande occasione della mia vita.
3.
e passano quindici anni, pochi per le montagne,
troppi per la vita di un uomo. giunge una giovane recluta
e l’accolgo così come fui accolto io per la prima volta al presidio.
ho perso il mio destino.
ma come fare a resistere al pensiero
che invece il buono della vita debba ancora giungere?
ma il giorno in cui i tartari giungono per l’eroica guerra,
sono ormai stanco e malato.
mi allungo con il cannocchiale lungo il parapetto per vederli arrivare,
e crollo svenuto come un fantoccio.
mi mandano via, proprio alla vigilia dell’attacco,
e guardo le pareti gialle della fortezza per l’ultima volta,
gialle come il mio volto malato. la mia morte ora scende verso la valle,
mi portano via con una carrozza; mi fermo in una locanda.
ora sono su una poltrona, solo al mondo,
je suis tout seul dans ce monde, è notte.
ma ad un tratto, nella stanza coperta di buio, mi avvicino
alla finestra, per guardare la mia ultima porzione di stelle.
e sorrido, sorrido perché il mio ultimo senso è, ora che il tempo
è di nuovo fermo, sorridere con dolcezza e decoro alla morte che arriva,
et maintenant que le temps s’est arrêté, je peux seulement
sourir, avec doucer et dignité, à la mort qui s’approche.
questo l’unico mio senso di vita rimasto, il più grande,
ora che tutti gli altri sono svaniti come nebbie per sempre.
L’autore ringrazia Paula Iglesias Garcia.
(vedi anche Corsia numero 6, con altre info sull’autore)