Che cosa è questa guerra jugoslava? Che cosa erano le guerre di chi ci è passato? Sempre qualcosa di raccontato da chi è sopravvissuto, non dai morti, i morti della guerra partigiana visti da Cesare Pavese in una vigna, muti con il loro mistero. Guerre raccontate dai sopravvissuti di generazioni diverse, a volte diversissime.
La precedente alla mia, almeno gli intellettuali, era andata alla prima guerra mondiale come a una prova di redenzione e di palingenesi, la guerra “sola igiene del mondo”. Il “lavacro” dopo di cui, diceva Mussolini, “nulla sarebbe più stato come prima”, una reazione individualistica alla rivoluzione industriale di massa, una rivincita del cuore, della volontà rispetto alle merci e alle macchine. Anche un’ esperienza estetica la bella morte raccontata da Junger sui prati “irrorati di sangue”. E poi si era trovata impantanata per anni nel fango delle trincee, finché le masse e le macchine e le merci avevano deciso la vittoria. Le guerre non solo vengono raccontate dai sopravvissuti, ma nella versione ufficiale, dominante, da quelli che comandano nel regime che alla guerra è sopravvissuto. Ecco perché quelli della mia generazione seppero poco e male della prima guerra mondiale anche se erano passati solo venti anni: niente di Caporetto, niente delle stragi sull’ Isonzo, niente delle decimazioni dei fuggiaschi e del Piave solo la retorica dell’ ufficio propaganda del Regio esercito “meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora” scritto, pensa te, da un fante ignoto con chi sa quale carboncino. Ho capito cosa era stata quella guerra due decenni dopo in una marcia del corso allievi ufficiali sull’ altipiano di Asiago, all’ Ortigara: la cima si era abbassata di otto metri sotto le cannonate, nelle trincee c’ erano ancora, nonostante i venti inverni, brandelli di divise, scarponi di alpini, ossa di alpini, mostrine, giberne di alpini. Già, la guerra è una delle cose umane in cui capisci meglio che il caso è il vero padrone della nostra esistenza. Nella mia il caso decise che uno nato nel secondo semestre del 1920 fosse richiamato solo nel ‘ 42 e uno del primo semestre invece si facesse il fronte occidentale contro la Francia e poi l’ Albania; sempre il caso decise che alcuni passassero l’ intera giovinezza in guerra, prima in Etiopia, poi in Spagna, poi in Jugoslavia, poi in Russia, poi con i partigiani sicché i loro parenti si erano quasi dimenticati che faccia avessero. Una guerra è ciò che raccontano i sopravvissuti secondo i loro casi. La nostra fu la conferma di qualcosa che si era intuito ma che si stentava a credere: non avevamo un esercito pronto a farla anzi pronto a volerla fare. Si era nel ‘ 42, la guerra aveva già preso per noi una brutta piega ma nella caserma di Bassano del Grappa corso allievi ufficiali della guerra non arrivava nessuna eco, passavamo i giorni in un mondo chiuso fermo alle armi e agli addestramenti della prima guerra mondiale, montare e smontare il fucile, fare ordine chiuso, ascoltare il tenente Del Grosso che ci spiegava il regolamento.
Perché nessuno parlava della guerra? Perché nessuno sembrava interessato a trarre delle lezioni dalla guerra in corso? Che prova aveva dato quello sputafuoco del cannoncino anticarro 47/32? Come avevano funzioni i vecchi fucili 91, quasi gli stessi della prima guerra d’ Africa? Anche al fronte i fucili mitragliatori si inceppavano ogni dieci colpi? Niente, neppure l’ ascolto dei bollettini di guerra, tutto fermo alla marcia del principe Eugenio e al regolamento del magico libretto che garantiva la burocrazia militare, la copriva da ogni responsabilità. Un cielo di un azzurro un po’ estenuato, adriatico, stava sopra le campagne morbide di Ezzelino da Romano che salivano verso il massiccio protettivo del Monte Grappa, sacro alla patria e la guerra non c’ era mentre marciavamo come pensiero, come progetto. Nove su dieci non avevamo mai guidato un’ automobile e non saremmo stati capaci di far muovere un carro armato, non sapevamo come si montava un ponte, come si radiotelegrafava, segnalavamo ancora con le bandiere a strisce rosse e bianche. Alle cose tecniche avrebbe pensato il Genio che nessuno di noi aveva mai incontrato. La guerra vera, quella che si combatteva in Albania e in Russia, per noi non esisteva. Noi simulavamo una guerra che non c’ era mai stata, una finta guerra di venti anni prima sulle pietraie del Grappa o di Arco vicino al Lago di Garda, tatticando come prevedeva il regolamento ma che sarebbe stato suicida in una guerra vera: avanti il primo plotone coperto dal fuoco degli altri due, non a forza di gomiti come i tedeschi, ma di corsa destinati a essere falciati da una mitragliatrice nemica che però non c’ era. Non c’ era altro nella nostra preparazione guerriera: il grido dell’ assalto finale, Savoia contro il nemico inesistente e poi la marcia del principe Eugenio, i tamburi e le trombe del generale sabaudo che dall’ alto di Superga guarda Torino assediata dai francesi e poi dà ordine alle truppe austriache con cui ha sconfitto i turchi davanti a Vienna di scendere a liberare la città, battaglioni che avanzano a passo ritmato e scendono come i fiumi e i torrenti del Piemonte. E allora noi marciavamo per Bassano la dolce come se fossimo granatieri reduci dall’ Assietta.
Poi per tutti noi in qualche terra straniera africana o russa sarebbe arrivata l’ ora orrenda della guerra vera che i sopravvissuti raccontano e che rimane come un periodo folgorante nella loro memoria, perché non c’ è altro che esalti e renda indimenticabile un evento più che la paura della morte che è di tutti. Mai visto in guerra uno che sotto il fuoco nemico non si sentisse schiacciare il petto e stringere la gola da quella paura che fa anche delle guerre più stupide, più feroci, qualcosa di unico, di assoluto. La guerra continuava interminabile e casuale come una lenta ma incontrollabile mola che si portava via uno dopo l’ altro gli amici di gioventù. E anche il lutto aveva effetti casuali, di alcuni che pure ci erano stati molto amici ci importava poco, di altri ci ferivano al cuore aspetti magari minimi per una guerra. Era il caso che oltre la paura della morte segnava quei lunghi mesi senza sbocco: il sapere che era il caso a decidere e che non avresti potuto far nulla per evitarlo; il caso di una cartolina precetto, o di un ordine che un giorno sarebbe arrivato: si va in Russia, si va a El Alamein, chi deve andare va, chi deve morire muore. La guerra non è sempre orrenda per tutti: puoi passare dei mesi come l’ Hemingway convalescente a guardare gli alberi oltre il fiume e a corteggiare le infermiere, puoi essere uno dei milioni di sfollati che ogni sera prendono la bicicletta e vanno a dormire in campagna o in cerca di farina e di burro, puoi essere uno dei milioni che riscoprono la campagna e guardano dal treno come cresce il grano e si angosciano se la grandine ha piegato le messi. Ma la guerra è una macina che schiaccia man mano tutto, che devasta il mondo in cui sei cresciuto. Arrivavi a Torino, a Milano e trovavi un mare di macerie, viaggiavi sui carri merci in piedi o su delle panche, e ti sentivi risuonare negli orecchi il suono lacerante delle sirene. Credo che molti di noi siano saliti in montagna come per una liberazione dalla guerra del caso, dove sei una pedina nelle mani del caso, per fare una guerra senza costrizioni, una guerra di libertà in cui puoi morire ma nessuno ti costringe a morire, in cui non ci sono libretti del regolamento, e un’ arma non è un peso ma un tuo custode, un tuo alter ego. L’ unica guerra che gli italiani sanno fare.
(4 maggio 1999)
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