DA: http://pubblicogiornale.it/cultura-2/orwell-extrail-numero-centosessantatre/
Mi alzo alle cinque, troppa paura che non suoni la sveglia. Salto la colazione, fumo la prima sigaretta e prendo il tram. Sono il numero centosessantatrè. Il bar della scuola ha già finito tutti i cornetti.
I volti sono gli stessi dell’anno scorso, manca solo il sessantenne che sapeva gli orari di tutte le corriere, quello che mi diceva sempre di scappare dalla scuola perché sta vita non è umana e alla fine uno sbrocca – e poi mi faceva vedere sul cellulare le foto dei suoi amici pensionati che si erano trasferiti a Santo Domingo. Chissà dov’è, se l’hanno messo in ruolo, lui che nel 2011 ha festeggiato il contratto a tempo determinato numero ventotto.
Io e i miei amici squaderniamo le novità: una pancia di cinque mesi, un matrimonio, una bimba e un bambino di tre anni che è qui, perché la duecentododici non sapeva a chi lasciarlo. La gara di chi è finito peggio l’anno scorso la vince la centoventidue, una cattedra metà a Subiaco e metà a Colleferro, l’autobus partiva da Ponte Mammolo alle 6.40 – però al duecentosei c’è uno dell’Irpinia che ha lavorato in una privata a gratis per tre anni, quindi meglio star zitti.
Alle undici, i precari più anziani entrano nella segreteria e le scuole più ambite se ne vanno, un tratto di penna sulla lista e via Trastevere, via il centro storico, via San Giovanni – la mappa dei luoghi dove trascorrere l’A.S. 2012-2013 comincia a lambire il raccordo anulare e, più in là, il litorale, l’entroterra, il basso Lazio.
E il gioco delle convocazioni sta tutto qui, nel sottrarsi a quel più in là. Nel restare quel romano qualsiasi, sempre agitato, in perenne lotta coi mezzi pubblici, che però in fondo deve soltanto spingersi in un tram strapieno alle sette e mezza e non trovarsi in stazione in tempo utile per salire sul regionale delle sei e venti.
Alle undici se ne va il quartiere Africano, l’Eur, pure la Bufalotta. La centonovanta fa girare la voce che le scuole in campagna sono meglio di quelle in città, i ragazzi di paese, l’aria buona, ma noi non ci caschiamo, la mossa è vecchia. Non ci casca neanche la novantuno che quest’anno festeggia la sua convocazione numero venti e dice che non ce la fa più, e poi, insomma, alla fine di questa giornata cosa la aspetta?
La sveglia, un indirizzo da trovare, una vicepreside che ti consegna l’orario peggiore di tutti, un mese per imparare i nomi dei ragazzi, tre per conoscerli un po’, sei per capire come stimolarli al meglio, e poi, ciao, è finito il contratto. La centodue dice che c’è sempre Sondrio, lì di posti ce n’è e se ti piace sciare vai alla grande.
Alle tre vanno via il carcere di Rebibbia, l’alberghiero a Capannelle e il serale a Centocelle, e noi facciamo giurare al bambino della duecentododici che da grande non farà l’insegnante. Alle quattro la centosettantanove ci racconta che l’anno scorso ad Anzio (treno da Termini h. 6.07) è successa una cosa bella. Ha conosciuto un collega, è nato l’amore e ora, la vediamo la pancia? “Povero bambino, ce la farà a campare con due stipendi da insegnanti?”, la centosei pensava di avere fatto la battuta, ma noi restiamo tutti zitti.
Alle cinque è rimasta solo Torbellamonaca: dico alla centosessantuno che Torbella mai, meglio Sezze e la sagra del carciofo, ma lei mica ci casca.
Alle cinque e dieci io e la centosessantasei ci diciamo che qualcosa non va, che a lavorare così ogni anno ci sentiamo cambiate, che stiamo perdendo la voglia. Pronunciamo la parola: umiliazione, e la centododici sfodera un sorriso sadico mentre dice: “e siete solo all’inizio!” Lei ha quarantanove anni, due figli e ogni giorno fa su e giù tra Roma e Salerno. Qualcuno sibila “e allora perché non resti a casa tua invece che venire qui a rubarci i posti” mentre la centodue ci ricorda che Sondrio è un bel posto.
Alle sei sono rimaste Subiaco, Sezze, Nettuno e Civitavecchia. Per Nettuno c’è un treno comodo che parte da Termini alle 6.07, lo stesso che va ad Anzio e su cui la centosettantanove ha progettato un figlio che crescerà con due stipendi da insegnanti.
Alle otto chiamano il centosessantatre e penso che quando uscirò proporrò una cena ai miei amici, ma che quella cena non si farà mai e ci ritroveremo l’anno prossimo con un nuovo vincitore nella gara di chi è finito peggio; penso che domani mattina dovrò presentarmi per il mio primo giorno di scuola, e dovrò imparare cento nuovi nomi che poi a giugno dovrò scordarmi; penso che svegliarsi alle quattro e mezza non sarà poi così devastante, se la centosessantanove ha pure trovato il tempo di fare un figlio; penso che mi piacerebbe sapere dove è finito il sessantenne precario che sapeva tutti gli orari degli autobus, ma poi decido che va bene così e che preferisco immaginarlo semplicemente a Santo Domingo.