Entomologo, conduttore televisivo, scrittore di prosa e di teatro, poeta, amico dei gatti, professore: Giorgio Celli ama i “compossibili” e in ogni campo in cui si è prodotto ha ottenuto grandi risultati. Il racconto che segue è tratto da una piccola raccolta di “testi inattuali” in cui a minimi eventi corrispondono riflessioni di estrema profondità. Qui per esempio, siamo chiamati in causa sul senso recondito dell’insegnare…
Giorgio Celli, Dio fa il professore, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 34-39
Salì, dal profondo della cassa toracica, dal centro solare dell’essere, meteora esplosiva, fredda, come sempre improvvisa, e benché aspettata; colma di un doloroso stupore, propagandosi a onde di dolore concentriche nella mia schiena, quello spasimo, quel sussulto ammonitore del muscolo cardiaco ammalato.
Sentii il rumore di quel colpo- tra la diastole e la sistole- di quella interruzione violenta d’armonia, risalire, nella vertigine, bolla d’aria sonora, grido d’allarme viscerale, lungo le vene del collo, ad afflosciarsi in un denso borborigmo, una risacca d’ovatta e di sangue, contro la cupola cranica. Piazza Aldrovandi, atelier di tutti gli Arcimboldi fruttivendoli della città, con le sue cento edicole: babilonia di meloni e di polpi, ruotò su se stessa, i suoi ippocastani si accesero di un flash violetto, il cielo sembrò impennarsi nel pozzo ovale delle case, atrocemente perpendicolari, poi ripiombare giù, aquilone abbattuto dal vento, tra una frana di foglie, di tegole e di nuvole, contro di me, che, smarrito nel limbo/sospensione tra due battiti cardiaci, non morto/non vivo, in attesa del miracolo di una ripresa, alzai, puerilmente, e ieraticamente, la mano contro il viso per proteggerlo. Morire, pensai dopo, significa scambiare le allucinazioni per le cose, perché esse, le allucinazioni dico, sono messaggi dall’interno, e partecipano di un universo più profondo e sottile, di un microcosmo più nostro, di quelle percezioni che condividiamo, in modo più o meno equanime, secondo l’efficienza dei sostrati fisiologici, con gli altri.
Quel cielo che cadeva, nel mio cervello, era una apocalisse personale, il mio modo di pensare la morte, e la mano, che alzavo, nel mondo “vero” era, per me la paura, o il rifiuto del buio, fatti gesto. D’improvviso, la ripresa del metronomo cardiaco saldò la mia vita, nuovamente, al presente; sopra la piazza piena di ortaggi, di voci, del rumore di una fontana, il cielo era fermo, screziato di sole, eguale a tutti gli altri cieli dei miei giorni.
Mi domandai, ancora una volta, perché mi fosse necessario vederlo, il mio antico allievo, il mio discepolo di sempre, perché dovessi fermarlo per strada, se l’avessi incontrato, guardarlo negli occhi, e non so, forse col mio silenzio, forse con sottili allusioni verbali, interrogarlo. Offenderlo perché mi aveva rubato, per ben cinquant’anni, la vita. Perché, senza volerlo, aveva estorto la mia testimonianza.
Ci sono delle professioni, io credo, come quella così comune, e neutra, a quanto dicono, dell’insegnante – professioni/palude, sabbie/mobili – che nascondono dei sottili, misteriosi pericoli.
Si rischia, infatti, peregrinando di scuola in scuola, di aula in aula, vivendo e invecchiando insieme a quelle giovani belve con cui cerchiamo, ogni giorno, di parlare, la perdita dell’anima. Io ho perduto la mia, cinquant’anni fa, e da allora sono vissuto, fino a questa eclissi cardiaca, per delega. Ho sempre pensato che il desiderio del plagio, della possessione diabolica, o quello dell’estasi, della coazione a ripetere, della sospensione di presenza, costituiscano le pulsioni segrete, inconfessate, di ogni vocazione didattica. Esistono, così, degli insegnanti vampiro, che assorbono, giorno per giorno, la vita che a loro sfugge, dagli allievi più giovani, strappando loro i segreti per divulgarli, i sogni per dileggiarli, plasmando, con furore polare e maligno i discepoli a loro immagine, trasformando bambini aperti al mondo, ragazzi entusiasti, che sono le vittime preferite, in lèmuri, capaci soltanto, poi, di comunicare e vivere derubando e soffocando. Altri insegnanti, invece, si mutano, anno dopo anno, in automi parlanti, che suonano, col grammofono della loro memoria, una musica di parole, in una ipnosi sempre più metafisica e durevole, secondo una meccanica che lascia a questi lotòfagi scolastici il tempo di essere altrove, forse nei climi remoti della loro giovinezza, e di sognare.
Né demone né automa, né vampiro né lotòfago, io ero destinato a soccombere. Perchè quella rabbia demiurgica, degli uni, di plagiare e di possedere, o quell’estasi degli altri, che consente loro l’abolizione del presente, non sono altro, se ben si esamina la cosa, che modi per difendersi. Esorcismi. Io ero disposto a darmi, e quindi, fatalmente, a perdermi. E mi diedi, a lui, con il consenso, per le sue poesie, che mi aveva fatto leggere, con un giudizio che la sua giovinezza avrebbe saputo rendere definitivo, che io pronunciai sorridendo, e rassicurandolo della bontà di queste sue prime esili prove di scrittore. Sorrise anche lui, a me, supplente in una scuola di periferia della mia città, e compresi che quel giorno era stato per lui l’inizio di una certezza intangibile.
In quel momento, quando se ne andò, mi sentii eguale a Dio; avevo creato estraendolo come un chirurgo celeste dal cuore del possibile: un destino. Non ci vedemmo più. Ma era giusto. Essere stato Dio per una volta, mi condannava a doverlo essere, con lui, dopo, per sempre. Sapevo che la sorte di ogni creatore, divinità o artista che sia – è quella di separarsi dalla sua opera, di farsi, rispetto ad essa, un testimone. La libertà dell’uomo, infatti, di cui parlano i teologi, la libertà di marciar attraverso le ere uccidendo e soccombendo, edificando e devastando, alternando tavole della legge a genocidi, esige che la divinità, per così dire, si sfuochi e si allontani, mitica cometa, dal nostro cielo, per diventare, nelle profondità delle galassie, l’occhio totale, il testimone della storia.
Demiurgo di un universo in miniatura, di un micromondo creato da un sorriso, e un consenso, anch’io mi allontanai dalla sua vita. Resi, così, testimonianza a me stesso dei suoi libri, che erano un poco anche i miei, partecipai, nell’assenza, con l’ansia di chi non deve e non può intervenire, ai suoi amori rabbiosi e catastrofici, e la sua fama, il suo successo, che vennero, pensai, con esultanza che fossero cresciuti sul mio consenso di quel giorno. E, quindi, che costituissero nel mio mondo parallelo l’equivalente di una restituzione e di un compenso.
Quando però, nelle remote profondità del mio cielo immaginario, la morte mi si annunciò, rompendo l’armonia del mio ritmo cardiaco, un desiderio, dapprima sottile, poi sempre più urgente, cominciò a crescermi dentro. Il desiderio di sapere se ricordava. Se quel destino, che mi doveva, era ancora per i sottili tramiti della memoria, collegato al mio nome. Dio morente, ero io, che avevo bisogno del suo consenso e della sua testimonianza. Il cuore malato mi rivelava, d’un tratto, la solitudine e la nullità della mia vita. Avevo abdicato all’esistenza a favore di un altro, che forse lo ignorava. Mi ero, per rendergli la perfetta testimonianza, così allontanato da lui, che lui, la mia creatura, mi aveva, forse, perduto di vista. Anche Dio, se esiste, argomentavo, non potrà restare per sempre l’abitatore della lontananza. Cadrà, come in una favola gnostica, attraverso gli eoni, gli universi folgorati dal suo passaggio, vinto dalla tristezza millenaria di non partecipare, nella storia. E io pure precipitavo, braccato dal mio cuore in disordine, verso il mio discepolo. Cominciai a fare congetture sul nostro incontro, che per forza avrebbe dovuto essere casuale. Mi affidavo, in tal modo, al destino. Mi aggirai per le strade, divorato dall’angoscia, cacciatore di fisionomie, decifratore di ombre e di fantasmi mentali, guidato dal ricordo di un viso sommerso, trasfigurato, ora, dal tempo, trasalendo a ogni vaga somiglianza.
Mi dicevo che l’avrei incontrato, un giorno, in una fuga di portici, o in piazza Aldrovandi, ventre della città, pieno di odori di frutta e di formaggi, e il suo sorriso complice, il lampo, che si sarebbe acceso, fosforo della memoria, nei suoi occhi, a vedermi, mi avrebbero dato la certezza che ricordava. E ci saremmo ritrovati, di colpo. Aboliti gli anni, in quel pomeriggio d’inverno, in quella tetra aula scolastica, di nuovo, dopo tutta un’esistenza di reciproca assenza, insieme: a sorriderci d’intesa.
Ma non fu così. Gli ippocastani si incendiarono ancora di un flash violetto, che perdurò, a lungo, sulla mia retina abbagliata, e questa volta la mia mano non riuscì a fermare il cielo che crollava, di dentro, su di me. La sospensione del battito cardiaco si protrasse nel tempo, diventò, oltre il tempo, che si era fermato il punto d’infinito in cui la mia mente si congelò, nera, per sempre. E cessò di pensare: perché alla fine la vita ci perdona.