Luigi Meneghello piace molto alle Voci: per i “Piccoli maestri” naturalmente, ma anche per un libretto intitolato “Fiori italiani” che descrivendo la propria educazione di epoca fascista arriva ad interrogarsi su cosa sia il processo educativo, come avvenga, cosa ci lasci. Ne proponiamo i brani in cui viene onorato il partigiano Antonio Giuriolo, vero maestro per molti della generazione di Meneghello. I titoli danteschi delle sezioni sono proposti da un amico delle Voci: vogliono essere segnali, piccoli cippi stradali nel percorso di lettura.
L. Meneghello, Fiori italiani, Milano, Mondadori, 1994, pp. 165 sgg., I ed. 1976
[“… del tuo valor sì fatto vaso”, Par. I, 14]
Devo ora parlare dell’uomo che fu maestro di S., mio, e dei nostri compagni, Antonio Giuriolo. L’incontro con lui ci è sempre parso la cosa più importante che ci sia capitata nella vita: fu la svolta decisiva della nostra storia personale, e inoltre (con un drammatico effetto di rovesciamento) la conclusione della nostra educazione.
Poiché non è sopravvissuto alla guerra (morì a 32 anni, nel dicembre 1944) è naturale che la sua figura sia restata per noi nella luce in cui la vedemmo allora: credevamo di avere incontrato una personalità straordinaria animata da forze miracolose.
Oggi si potrebbe pensare che questo fosse soltanto un riflesso nei nostri occhi: effetto dello shock di avere incontrato un uomo che davvero non aveva ceduto al fascismo. Così è accaduto per altri antifascisti conosciuti allora: parevano figure più grandi del vero, ma poi si vide che erano persone qualsiasi.
Nel caso di Giuriolo non è così. L’impronta che ha lasciato in noi è dello stesso stampo di quella che lasciano le esperienze che condizionano per sempre il nostro modo di pensare, di vivere e se scriviamo, di scrivere.
Credo che di maestri di simile tempra ce ne siano stati in ogni parte d’Italia pochi bensì, ma non pochissimi. Dietro a quasi ogni gruppo di studenti partigiani o resistenti si sente (qualche volta si sa) che ce n’è stato uno; e penso che sarebbe importante studiarli, ricostruire bene la loro cultura, riconoscere l’origine e la tempra del loro non-conformismo, rintracciare la storia delle loro libere scuole e gli effetti della loro influenza. Forse m’inganno, e l’argomento non è interessante se non per la pietas e il senso storico privato di pochi italiani che invecchiano in patria e fuori: ma non credo. Sono convinto invece che c’è proprio qui la chiave per capire come avviene realmente la trasmissione della cultura.
Mi rendo conto che nelle esperienze culturali di un popolo esiste anche uno schema tutto diverso da questo: arrivano (per noi italiani di solito arrivano dall’estero) certe ondate di idee e prospettive nuove, con forza impersonale. Non è necessario che siano mediate, pur essendoci sempre chi s’incarica di mediarle: non sempre bene, a volte malissimo. La “cultura” del paese si aggiorna come d’incanto; la forza stessa delle nuove prospettive fa da maestra e direttrice didattica. Così dev’essere stato nella storia lontana della specie: arrivavano cose o idee (in principio dovevano essere identiche), per esempio un modo nuovo di fare i vasi di coccio, o i raschietti di osso, e la gente se ne impadroniva senza maestri, lo interiorizzava d’emblée, si liberavano forze nuove e imprevedibili.
Sono convinto però che in alcune cose assolutamente cruciali l’altro schema della trasmissione individuale e personale abbia un ruolo insostituibile. Un modo nuovo di fare i vasi ha una sua potenza educativa immediata; ma se si tratta invece di fare gli uomini, la mente degli uomini e delle donne, non c’è forse altro modo che quello antico, paziente, difficile di esemplarli su modelli viventi. Un metodo che non si può importare, né copiare. […]
[“come sa chi per lei vita rifiuta”, Purg., I, 72]
[…] A Toni quel giorno in treno S. si trovò dunque a citare un detto di Olivelli, una delle dieci cose: che si andava in tutto il mondo “verso forme collettive di vita politica e sociale”, e perciò si poteva giudicare che il problema della libertà non fosse più il problema centrale della vita politica. Accadde qui una cosa molto insolita. Toni si arrabbiò. Non con S. che in fondo non faceva che riferire, ma con una forma mentis (si sarebbe detto) ben conosciuta, priva di importanza intrinseca, ma non trascurabile, anzi – te ne accorgi al momento che te la riattestano – temibile e temuta, per la plausibilità delle sue forme esteriori, la difficoltà e l’umiliazione di dover contendere con essa… Toni fece uno sbuffo d’impazienza, come uno che sente che la risposta giusta non si può facilmente mettere in parole. Attaccava delle frasi e le lasciava interrotte… Eppure fu in quel momento che S. intese qual era la vera posizione dei ragazzi come Olivelli. E intese inoltre qualcosa di essenziale intorno alla libertà.
La libertà di Antonio era il nome della sola ispirazione religiosa che gli pareva possibile per dei laici. L’alimento stesso della vita intellettuale e morale. “Libero” come attributo delle cose umane credo che fosse per lui indistinguibile da “vero”, “reale”: tutto ciò che si genera di fatto negli animi degli uomini liberi; tutto ciò che sono capaci di creare. Una vita individuale, una società hanno senso in quanto si fondano su questa libertà: opporla a qualunque altra ispirazione morale e politica della comunità non è solo sviante, è mostruoso. Senza di essa non c’è alcuna società (come non c’è alcuna vita privata) che valga la pena di avere.
Naturalmente questa non è una posizione politica se non nel senso più lato. Questa è semplicemente una religione. Per la piccola lapide che fu murata su una porta interna della biblioteca Bertoliana (pareva la più giusta commemorazione possibile) fu Franco a scrivere le parole. Ho qui davanti il piccolo autografo.
In tempi servili
qui cercava rifugio
nella storia e nella poesia
qui nell’attesa
insegnava la dignità del cittadino
Antonio Giuriolo
partigiano medaglia d’oro
cresciuto e caduto per la religione
della libertà
La terzultima e la penultima parola già incise sulla lapide, furono cancellate per disposizione del sindaco, in base all’argomento che di religione ce n’è una sola; e pare che Franco, furibondo, abbia tentato invano di sostenere che quella è invece la mamma. In verità il sindaco non era uno sciocco, e quando Franco si fu calmato, gli fece capire che “la religione della libertà” era un’espressione giustissima, ma inopportuna. È un tipo di argomento che in altri contesti è ancora molto usato in Italia. Forse la verità è sempre inopportuna. (La lapide non fu rifatta, soltanto si cancellarono le parole lasciando le righe curiosamente sbilanciate: e inoltre ciò che fu cancellato fu il colore delle lettere, ma siccome erano anche incise, si leggevano ugualmente. Quasi quasi la lapide sembrava più bella così; e mi dispiace un po’ che sia stata in seguito ripristinata nella sua forma originale).
[“Allor si mosse, e io li tenni dietro”, Inf., I, 136″]
[…] Viveva dando lezioni private. Non poteva insegnare nelle scuole perché non voleva iscriversi al fascio. Era questa la cosa che per prima ci faceva sgranare gli occhi conoscendolo, il primo segno di una qualità ignota all’ambiente culturale in cui eravamo cresciuti. Passava gran parte del tempo libero a studiare in biblioteca, e un po’ a discutere di libri e di idee con qualche coetaneo amico. Cominciò a interessarsi di noi proprio nell’estate 1940, nei mesi del lutto e delle lagrime: forse anche per reazione a ciò che pareva l’ultima catastrofe.
Nel rapporto che nacque da questo incontro coi suoi discepoli vicentini si espresse (così credo fermamente) l’ispirazione essenziale della vita di Antonio; il nucleo intorno al quale si organizza tutto il resto.
[…]
Il suo rapporto con noi era certamente di tipo evangelico, benché mancassero del tutto i lati espliciti, esagitati, della predicazione. C’era proselitismo, ma in un’aura di sobrietà, di riserbo, di pudore. Forse nel Veneto è impossibile essere spudorati in modo serio, come invece dev’essere naturale, quasi inevitabile, nella Galilea meridionale (basta affacciarsi alla conca del lago di Kennereth per capire in un colpo solo, con gli occhi, questo aspetto della predicazione di Gesù). C’era un’indiscutibile somiglianza in una questione di fondo: l’influenza di Antonio, pur avendo per oggetto la mente dei suoi discepoli, investiva tutta la loro personalità e la cambiava. Il passo iniziale stava nel tirarci fuori dall’ambito delle famiglie (o dall’ambiente casa-scuola-campo sportivo) e sottrarci al giro delle influenze automatiche e ovattanti tra cui si era cresciuti. Alcuni familiari percepivano questo; le mamme avvertivano un’influenza vagamente ma fortemente minacciosa, un po’ indistinguibile dalle “cattive compagnie” della pedagogia cattolica e benpensante.
Non c’era la formula del “lasciate tutto e seguite me”, parole che a Vicenza farebbero ridere, ma la sostanza c’era. Senza sovvertire le forme esteriori della propria vita, con uno schema spontaneo di visite e di incontri nelle ore libere, si trattava proprio di lasciare il resto e seguire lui. Spesso letteralmente. Camminava in modo frettoloso, a filo del marciapiede, con l’aria di andare un po’ di sghembo. Non si andava a spasso con lui. Non faceva quelle passeggiate oziose, vicentine, superficialmente socratiche, di altri personaggi della “cultura” locale. Di solito era diretto in qualche parte, da un amico, alla biblioteca, alla stazione: lo si accompagnava in due o tre, qualche volta anche in Corso, più normalmente per le straducole, le piazzette, sotto i portici. C’era spesso qualche bicicletta spinta a mano. Lo si riaccompagnava a casa; si saliva nella stanza al secondo piano. C’era un letto di ferro, qualche sedia piena di libri, e libri ammucchiati o sparsi dappertutto. Si stava a chiacchierare seduti sul letto o sui mucchi dei libri. […]