Giorgio Manganelli, scrittore e critico, indimenticato autore delle “Interviste impossibili”, compagno per un tratto di vita della poetessa Alda Merini, in “Pinocchio: un libro parallelo” prende a pre-testo il famoso burattino per esporre una strabiliante teoria della lettura e della scrittura che ha già in sé il Calvino delle lezioni americane e le ultime sperimentazioni sui blog e sulla scrittura in rete.
Ne proponiamo una pagina in previsione delle belle letture in riva al mare o in un rifugio alpino; e perché no, anche sdraiati sul divano di casa propria: in fondo nei nostri ideali di vacanza ci stanno un luogo ameno e un bel libro infinito…
Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Torino, Einaudi (Nuovi Coralli), 1982, pag. 10
Non è impossibile che il candido e, fin qui, cortese lettore, si domandi se non sia per essere, la lettura del presente Libro parallelo, una sterminata (exterminata) dilapidazione di tempo, un vagabondar labirintico e noioso; né oserei dargli torto.
Ma vorrei almeno questo porre in chiaro: che non vuol essere una divagazione, un leggere a ufo, uno scrivere perditempo. Sotto questo scartafaccio – che non sarà poi tutto talmente menato per l’aia come per questo primo capitolo – sta una fantasia sul modo di leggere i libri, cui non mi negherò affettuoso. Non so se sia un libro: ma penso che saggiamente agissero quei cuneiformi che, per via della chiodosa grafia, ne improntavano spessi e argillosi poi ben cotti mattoni; ogni pagina, trecento delle nostre.
È inganno tipografico, che una pagina abbia lo spessore esiguo su cui, su entrambi i lati, si stampa. Direi che la pagina comincia da quella esigua superficie in bianco e nero, ma si dilunga e si dilata e sprofonda, ed anche emerge e fa bitorzoli, e cola fuori dai margini. Insomma, se qualcosa divaga, è appunto codesta pagina. Il lettore, e soprattutto il rilettore, attento, non ignora che una pagina, una riga, una parola è un gran suono dentro di lui, un rintocco cui offre i suoi nervi, li anfratti anonimi, le latebre latitanti e tenebrose. Una parola violentemente scardina i silenzi acquamarina del profondo, e ne desta squame di pesci, squali, scheletri di navi, coralli, fosforescenze. Due, tre parole imparentate formano un viluppo di disegni e fragori, che nulla varrà a sciogliere. Le parentele delle parole passano per quei nervi del lettore: eppure han da essere verificabili, rintracciabili nel testo. Da una sillaba all’altra procede, affranto pellegrino, il lettore; unico che tenga assieme la dispersa famiglia delle parole, che lo frastornano, lo invadono, lo occupano, e trasformano.
Ma che è codesto “stare insieme” delle parole? Come accade che lo spazio bianco che separa due parole sia superato, e che anzi le parole si chiamino di riga in riga, di pagina in pagina? Infiniti disegni disegna la pagina scritta dentro il contenitore di parole, il lettore. Non disegni solamente, giacché il libro è una mappa, la pianta di un casale, un palazzo, un castello, una regione, una patria. Codesta pianta non ha segni inutili, o neutri, e le lacune, gli iati sono non meno essenziali dei luoghi ove si edifica.
Questo mattone interiore del libro, della pagina, include innumere pagine, libri infiniti. Posso sfogliare una pagina e posso sfogliare una parola, anche andare a capo infinite volte di un a capo, leggere un bianco, tacere un suono, di ogni lettera fare un’iniziale.
Il libro si dilata, è tendenzialmente infinito. Eppure non è mai fittizio. Un grande libro genererà infiniti libri, e così a loro volta questi ultimi: né vi sarà mai l’ultimo. […]
Nella immobilità tipografica, lo spazio tra segno e segno è infinito. Quanto tempo impiegheremo a percorrerlo?