Scrivere un poema, servendosi di un mezzo diverse dalle parole: questo era, secondo Rabindranath Tagore, il senso della scuola di Santiniketan, da lui creata nel 1901 – un luogo nel quale sperimentare un metodo educativo fondato sul rispetto dell’individuo e della sua sensibilità (la scuola, insieme all’università consorella Visvabharati, oggi è gestita dal governo indiano – http://www.visva-bharati.ac.in). Le Voci propongono alcuni brani di un articolo di Tagore su quella scuola, pubblicato in inglese nel 1926. Una riflessione su un’esperienza educativa, certo – il ricordo di un desiderio di libertà, l’importanza di un’atmosfera favorevole… Ma anche un modo per avvicinarsi a una figura multiforme, che forse non gode di grande fortuna nella cultura italiana, mentre suscita grande attenzione nel mondo anglosassone, e naturalmente in India.
Tra un brano e l’altro, qualche verso – un piccolo invito a letture più meditate.
Tagore, La scuola di un poeta, in Id., La civiltà occidentale e l’India, Torino, Bollati Boringhieri, 1991 (1961), trad. di Jole Pinna-Pinter, pp. 203, 208-209, 219.
il baco e la farfalla
“Dopo tutte le domande che con tanta frequenza mi sono state fatte sono giunto alla conclusione che il pubblico si aspetta delle scuse da un poeta per aver fondato una scuola come, senza troppo riflettere, ho fatto io. Bisogna ammettere che il baco da seta che fila il bozzolo, e la farfalla che vola nell’aria rappresentano due stadi opposti dell’esistenza. A quanto pare il baco da seta ha a suo favore un certo valore economico che gli accredita la contabilità di madre natura, a seconda della quantità di lavoro che compie. Alla farfalla invece nulla si chiede; il significato che essa può avere non ha alcun peso né importanza, ed essa vola leggermente sulle sue ali ondeggianti. Forse qualcuno ama vederla nel sole, il Signore dei colori, che non ha mai nulla a che fare coi conti ed è il perfetto maestro della grande arte dello spreco.
Il poeta si può paragonare a quella sciocca farfalla. Anche lui cerca di tradurre in versi i festosi colori della creazione. Perché dovrebbe dunque legarsi, costringersi a un dovere? Perché dovrebbe rispondere a coloro che vorrebbero calcolare quanto egli produce in base al profitto che se ne ricava?
Io credo che il poeta risponderebbe che quand’egli ha riunito alcuni ragazzi in un invernale mattino di sole alla calda ombra delle alte e diritte piante di sal, i cui rami si stendono con tranquilla dignità, ha semplicemente cominciato a scrivere un poema servendosi di un mezzo diverso dalle parole.”
(…)
Cogli questo piccolo fiore, prendilo, non indugiare! Ho paura che languisca e cada nella polvere.
Non può trovar posto nella tua ghirlanda, pure onoralo con il tocco pietoso della tua mano e coglilo. Ho paura che il giorno abbia a finire prima ch’io me ne accorga e l’ora dell’offerta passi via.
Sebbene il suo colore non sia vivace e il suo profumo sia tenue, pure serviti di questo fiore e coglilo finché c’è tempo.
“la ragione per cui ho fondato la mia scuola…”
Quand’ero ragazzo, ascoltavo spesso il mio fratello maggiore che parlava con l’angoscia di un vano rimpianto di una società ospitale, ingentilita dal profumo di un’innata garbatezza, piena di semplice fede e d’una tradizionale poesia della vita. Tutto ciò era ormai un’ombra che svaniva all’orizzonte, nella foschia del crepuscolo; ormai la città moderna si era estesa ovunque; la città moderna, appena costruita da una società di mercanti occidentali, insieme allo spirito dei tempi nuovi urtava contro la nostra vita, per quanto si trovasse continuamente di fronte a infinite anomalie. Mi ha sempre sorpreso il fatto, sebbene questa dura crosta della città fosse la mia unica esperienza del mondo, ch’io fossi costantemente ossessionato dal pensiero d’essere in esilio, qualcosa che mi riempiva di nostalgia.
Forse il ricordo inconscio di qualche antichissima sede primordiale, dove nella mente dei nostri antenati avevan voce e forma i misteri delle rocce mute, 1’acqua corrente e gli oscuri sussurrii della foresta, rappresentavano per me un continuo richiamo che mi agitava il sangue. Sembrava che dentro di me si agitasse dolorosamente il vivo ricordo di quel campo da giuoco che un tempo avevo avuto in una vita primitiva, nella magia infinita della terra, dell’acqua e dell’aria. L’acuto e sottile sibilo d’un aquilone, che volava in alto nel sole fiammeggiante di un accecante meriggio indiano, pareva al fanciullo solitario il segnale di una lontana, muta affinità. Le poche palme da cocco che crescevano nel nostro giardino, simili a prigionieri di guerra di un antico esercito di invasori di questa terra, mi parlavano dell’eterna solidarietà che la grande famiglia degli alberi ha sempre offerto all’uomo. E facevano palpitare il mio cuore in risposta all’invito della foresta. Fui tanto fortunato da poter rispondere a quell’invito quando, ragazzino decenne, mi trovai solo sull’Himalaya sotto l’ombra dei grandi deodar, reso muto dalla cupa dignità di quella antichissima aristocrazia delle forme della vita, dalla loro solida fortezza, che era ad un tempo terribile e cortese.
Riandando ora a quei momenti della mia infanzia, nei quali pareva che la mia mente fluttuasse sulle ali di un sentimento infinito che era quello del cielo e della luce, non posso fare a meno di credere che i miei antenati indiani abbiano lasciato nel profondo del mio essere l’eredità della loro filosofia, la filosofia in cui si parla del completamento che l’uomo raggiunge mediante l’unione armonica con la natura. Una filosofia che fa sorgere in me un gran desiderio di cercare la libertà, non nel mondo creato dall’uomo, ma nella profondità dell’universo, e mi impone di guardare con reverenza il divino che esiste nel fuoco, nell’acqua, negli alberi, in tutto ciò che si muove e cresce. La ragione per cui ho fondato la mia scuola, trova la sua origine nel ricordo di quel desiderio di libertà, un ricordo che pare vada oltre 1’orizzonte della mia stessa nascita.
(…)
È finita la notte.
Spegni la lampada fumante
nell’angolo della stanza.
Sul cielo dell’oriente
è fiorita la luce dell’universo:
è un giorno lieto.
Sono destinati a conoscersi
tutti coloro che cammineranno
per strade simili.
“la concentrata saggezza dei secoli…”
L’inconscio dei bambini è molto attivo e, come l’albero, ha la capacità di trarre il proprio alimento dall’atmosfera che lo circonda. Per loro l’atmosfera è infinitamente più importante delle regole e dei metodi, delle attrezzature, dei libri di testo e delle lezioni. La terra trova la maggior parte della propria sostanza nel suolo e nell’acqua; ma, se mi è permessa un’espressione figurata, trova invece lo stimolo necessario solo nell’atmosfera. È questa che suscita nella terra la possibilità di rispondere con colori e profumi, musica e movimento. L’uomo ha trovato nella società attorno a sé una diffusa atmosfera di cultura e, attraverso questa, la mente dell’uomo è sensibile all’eredità del suo popolo, alla corrente di influenze che derivano dalla tradizione. È ciò che gli permette di assimilare inconsapevolmente la concentrata saggezza dei secoli. Nelle organizzazioni scolastiche esistenti invece, si lavora come dei minatori, vale a dire si scava per trovare delle cose, anziché fare come i contadini che, scavando, collaborano con la natura. Nella mia scuola ho cercato soprattutto di creare un’atmosfera, è stato il compito principale che mi sono proposto. Bisogna che nelle istituzioni scolastiche le nostre facoltà siano nutrite, affinché la mente acquisti libertà e la fantasia divenga adatta al mondo dell’arte, e sorga in noi comprensione per i rapporti umani. Questo, in special modo, è molto più importante che apprendere la geografia dei paesi stranieri.
La mente dei bimbi di oggi, quasi deliberatamente, viene resa incapace di comprendere coloro che parlano lingue diverse e hanno costumi diversi. Di conseguenza, fatti adulti, gli uomini si feriscono reciprocamente per la loro ignoranza e soffrono per la peggior forma di cecità dei nostri tempi. Anche i missionari cristiani alimentano il disprezzo per le altre razze e civiltà. Guidati da un orgoglio settario, sebbene professino la fraternità universale, corrompono le giovani menti molto sensibili con pessimi libri di testo. Ho tentato di salvare i nostri fanciulli da tali aberrazioni, e in questo, l’aiuto di amici occidentali dal cuore pieno di comprensione mi è stato di enorme utilità.
I fanciulli escono correndo dal tempio
per andare a giocare nella polvere,
Dio guarda i loro giochi
e dimentica il sacerdote.
I titoli che precedono i tre brani sono delle Voci.
I versi conclusivi sono riportati dallo stesso autore alla fine del saggio sulla scuola.
Gli altri versi sono tratti invece dalle seguenti raccolte:
Poesie, Gitanjali, Milano, Mursia, 1990, trad. di Vito Salierno, 6, p. 37;
Scintille, Milano, Tea, 1995 (Guanda 1982), trad. di Marino Rigon, 12, pp. 36-37.