L’autrice in questo brano rivive le impressioni che lei stessa, scolara in terza elementare, provava di fronte alle parole che affluivano dalla voce della maestra e dai testi scolastici.Nel leggerlo, provate ad operare un rovesciamento dello sguardo: ad essere non più adulti che ascoltano le proprie parole, ma bambini che, perché no, proprio in un’aula scolastica, le ricevono e, forse, è come se le assaggiassero. Certo, siamo agli inizi del ‘900, in una realtà profondamente diversa da quella odierna e i bambini attuali non incontrano a scuola tante cose nuove – le hanno già viste e sentite fuori; eppure crediamo che la proposta rimanga, comunque, valida.Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Milano, Mondadori, 1997, pp. 413-416
“Nell’insegnamento per qualche cosa rimbambivo, ma ce ne erano tante altre col fascino della sorpresa.
La linea retta, per esempio; si tracciava sul quaderno riprendendola dalla lavagna dove la maestra l’aveva segnata; una linea vista da sempre diventava qualcosa perché si chiamava “retta” e poteva anche essere parallela, divergente, convergente e io giù a copiare, un gioco. Se si trattava poi della linea retta spezzata, potevo anche inventare. Non avevo mai supposto che una linea potesse diventare divertente.
E il diminuendo, il sottraendo, il resto, gli addendi, tutto così bello! Cose che sapevo certo, ma l’insegnarle con tanta solennità, poggiando sul tono della voce e sulla pronuncia, dava alla parola una personalità che prima mi era sfuggita.
Novità assoluta fu il quaderno a quadretti per l’aritmetica. Col maestro in casa le operazioni le avevo fatte prima con i soldi o fagioli sulla tavola, poi con i numeri sulla carta senza neppure le righe, carta in libertà. Questo dover incasellare un numero in ogni quadretto era una costrizione che toglieva interesse all’operazione; più ancora al quesito che ora si chiamava “problema”.
Il libro di lettura era il pezzo forte. Lì saltando da un argomento all’altro c’era tutto. La ragazza leggeva, la maestra alzava voce e mano a ogni errore, qualche volta batteva l’alt con la riga sulla cattedra.
Me non mi faceva leggere quasi mai perché tanto leggevo bene. Mi faceva leggere quando c’era qualche bel pezzo e lei voleva che le altre lo ascoltassero anche con la sua espressione, perché io leggevo, declamavo, recitavo, non so, piaceva anche alla maestra. “Vedi vedi nera nera/ lunga lunga e densa schiera/ o che fanno uniti e stretti/ questi cari animaletti?/ Vanno in fila ed ordinati/ come fossero soldati/ ed ognuno ha il suo fardello/ o di un chicco o di un granello.”
“Chicco” apparteneva al libro della scuola, in paese era acino; lì era “rammendare” mentre il paese diceva “rinacciare”; “rattoppare”, il paese diceva “rappezzare” perché le toppe erano pezze. I mori li chiamavano gelsi; invece di bachi diceva filugelli. Ma le donne che si graffiavano le mani per far la foglia dicevano mori e la foglia era per i bachi, non per i filugelli. Anche se aveva ragione, io ero più d’accordo col paese.
E poi c’erano cose sparite per sempre, se mai esistettero, il delirium tremens; mai visto, mai sentito dire di uno malato di quel male. Due parole spaventose per un male misterioso, che se davvero c’era, non poteva essere che un tremore inarrestabile.
Della “Scuola dei Costumi” non capii niente eccetto il signore di Salò; di sfuggita, ma il mistero compariva anche qui. Per esempio, che voleva dire “spleen”? Una parola antipatica anche; la maestra non la spiegò; io avevo quella tale serratura che impediva di aprirmi per chiedere un perché; le compagne che non l’avevano, non lo chiesero; il mistero restò.
[…]
Le saccocce, nome paesano, nel libro di lettura erano sempre tasche, eppure io nel grembiule avevo le saccoccette, non le taschette. Se non più corretto, il paese parlava più vero del libro. Lì dicevano “stracco”, il libro diceva “stanco” dove non c’è tutta la stanchezza che c’è nello “stracco”.
[…]
Eppure volevo bene a quel libro che spiegava come funzionava il fonografo, il telefono, il telegrafo. Confuso restava il famoso terremoto di Casamicciola; un mistero dovuto al nome. Mentre il diluvio della mia vecchia Storia Sacra tanto più lontano, era chiarissimo. Il colera di Napoli era Umberto I, baffi, occhi spiritati, capelli dritti sulla fronte che accorreva laggiù. Non ne capivo la grande meraviglia. Ma non rientrava nel suo mestiere “accorrere”?
Cominciavo però ad essere certa che quelle cose che erano scritte lì e io non vedevo c’erano davvero. Per esempio il pennacchio del Vesuvio e il castello dell’Ovo. Straordinario quel castello, un immenso ovo di pietra in mezzo al mare. Ma di dove entravano? E per l’aria, per la luce, come facevano? Mistero; per forza rimanevo lì incantata. Per fortuna non c’era la figura come per il pennacchio; se avessi visto le finestrelle che ci sono, Addio!
In “Giù la piazza non c’è nessuno” Dolores Prato racconta gli anni della sua infanzia a Treia.
La vicenda del libro è veramente singolare: è il suo primo romanzo uscito nel 1980, quando l’autrice aveva quasi novant’anni; si trattava, però, di un’edizione ridotta e corretta da Natalia Ginzburg.
Dolores Prato non riconobbe questa pubblicazione e preparò un nuovo dattiloscritto, che vide la luce solo diciassette anni dopo.