Nella Napoli degli anni cinquanta, “metropoli cupa e melmosa” del romanzo di Ermanno Rea, che con esattezza appassionata compie una investigazione sui mali della città, tra personaggi noti del mondo culturale e politico di allora non esce più dal cuore di chi legge la figura di Francesca Nobili, giornalista dell’Unità, compagna di Renzo Lapiccirella, amica del matematico Caccioppoli. Una donna-Shéhérazade che per un breve periodo fu anche insegnante.
Dalle pagine che rievocano quella avventura non emerge un modello: perché insegnare è complicato, quel che va bene per uno studente fa il danno di un altro, e perché entusiasmo e pensiero divergente non sono la ricetta buona per ogni situazione. Però, però…
Il racconto di un ex allievo ci conduce proprio lì, nel centro del ciclone.
Ermanno Rea, Mistero napoletano, Torino, Einaudi, 2002, pp. 226-230
Per mesi nella succursale di via Foria del liceo scientifico Vincenzo Cuoco non si fece che parlare della supplente di filosofia. Tutto in lei era motivo di stupore e di scandalo: come si vestiva, come si agghindava, la maniera confidenziale con la quale trattava gli allievi. Perfino i suoi sovrabbondanti bracciali, le sue filigrane d’argento e i suoi pendagli tunisini parvero, ai più, fusi dal diavolo in persona. Bigiotteria luciferina la chiamò un professore particolarmente timorato dopo che gli fu detto che la supplente non soltanto si era separata da un marito, ma aveva addirittura messo al mondo figli fuori dal matrimonio, prima con un uomo e poi con un altro. Fu subito, senza che neppure si pronunciasse l’espressione, la “donna del peccato”, germe di infezione di cui occorreva al più presto liberarsi.
La succursale occupava una serie di ambienti di un palazzo di civili abitazioni dove alloggiava un’umanità in bilico tra miseria e piccola agiatezza. Gli allievi, salvo rarissime eccezioni, rappresentavano nelle rispettive famiglie la prima generazione che studiava, che guardava all’università come a un traguardo non del tutto impossibile. Quanto al corpo insegnante, c’era una notevole omogeneità con l’universo sottostante: professori e professoresse rappresentavano a loro volta, socialmente parlando, un esordio, un timoroso cominciamento, erano il frutto di una promozione appena avvenuta. In molti casi, come i ragazzi, provenivano anche loro dall’immediata provincia, con tutta la carica di pregiudizio verso la “città perversa” di ogni provinciale che si rispetti, d’ogni provinciale non attraversato da dubbi o turbamenti. Eccola, “la città perversa”: aveva appunto quegli occhi, quei modi, quella sfacciata disinvoltura della supplente di filosofia.
(…)
“Ma arrivarono a contestarla apertamente?”
“No, la cosa peggiore fu che si creò una specie di sorda ostilità, un rumore di fondo, che naturalmente lei cominciò presto a concepire, con sorpresa e disagio”.
Fresa se ne accorse subito di questo disagio. La vide diventare via via sempre più cauta, meno comunicativa con una scolaresca che, a sua volta, non l’amava, non la comprendeva nei suoi metodi di insegnamento che se per alcuni – pochissimi – risultavano pieni di stimoli, di spinte, di seduzioni, per la maggioranza erano fonti di confusione e di ulteriore disaffezione dallo studio. “Non dico che fosse una un professoressa brillantissima e incompresa. Non dico che non avesse le sue incertezze e forse anche le sue sciatterie. Dico però che lei era capace di offrire, a chi avesse avuto udito sufficiente, spunti del tutto nuovi di approccio alla filosofia, stimoli intellettuali che colpivano l’immaginazione e inducevano a porsi domande”. (…)
Nel ricordo dell’ex allievo, per la verità, le luci sopravanzano di molto le ombre. (…)
Un giorno, a scuola, chiese ai ragazzi se sapevano chi fosse stato un certo Bach. Rimasero tutti a bocca chiusa. Compreso Fresa. Allora lei disse che era impresa ben ardua studiare filosofia senza sapere chi fosse stato questo signore. Affermò testualmente “È una cosa quasi indecente. Al vostro posto mi informerei”. E non aggiunse altro.
Fu una mossa molto abile perché ventiquattr’ore dopo tutti (o quasi tutti) arrivarono in classe avendo sbirciato in qualche enciclopedia quel nome.
Parole di Fresa: “Lo ammetto: nella didattica non aveva molto metodo, come insegnante mancava di polso e di esperienza. Ma quante cose ho imparato da lei, a cominciare appunto dalla musica, dal modo stesso di concepire la filosofia, la vita, la cultura, i rapporti sociali. E più vedevo crescere l’odio intorno a lei, più l’ammiravo, più mi rendevo conto in quale nido di vipere, in quale abisso di grettezza fossi vissuto, del tutto inconsapevole, fino ad allora”.