Una storia semplice, una “tranche de vie” narrata con partecipazione e sobrietà. Il senso ultimo del rapporto tra un maestro e una sua allieva: l’uno e l’altra, forse, a lungo inconsapevoli di esserlo, eppure spinti da “piccola passione e grande caso” a costruire una storia comune.
Emma Baeri, storica dell’età moderna, è impegnata da lungo tempo nel movimento femminista e negli studi di genere.
Emma Baeri, I lumi e il cerchio. Una esercitazione di storia, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 132-133.
Ci sono frasi brevi, indimenticabili: “Baeri, lei è una gran bigotta!”. Arrotava la erre furiosamente ed era rosso in viso, come sempre.
Era certo una mattina di fine marzo, di quelle che non invogliano a guardare il libro. La frase breve mi fu ripetuta ad aprile, a maggio, fino agli esami di maturità, e non l’ho dimenticata.
Se di lui, del professore Francesco Maricchiolo oggi posso sentirmi allieva, è più per questa frase che per una particolare passione della storia, che non mi trasmise. Se di storia ancora oggi mi occupo è per piccola passione e grande caso, e non è certo la sua storia ad intrigarmi. La sua misoginia, figlia – come sempre – di una fragile condizione di figlio, avrebbe cassato senza pietà il mio ragionare sessuato, la mia ricerca di una storia segnata dalla mia identità di genere. Ma la grande provocazione racchiusa in quella frase segnò un punto di non ritorno nella mia coscienza, il marchio netto su una educazione tanto indelebile quanto approssimativa.
Avevo bevuto gli anni Cinquanta fino in fondo, da papa Pacelli al festival di Sanremo: coscienza civile zero. Ero bigotta, dentro e fuori; non lo sapevo né volevo saperlo. Figlia viziata, mi sentivo inattaccabile, e fui attaccata.
Quella frase fu Attila nel mio cervello. Mi costrinse ad uno sguardo impietoso sulle mie radici culturali, ad analizzare il pane che avevo mangiato. Paradossalmente, per essere egli uomo intollerante (ma solo per intolleranza dell’ingiustizia), il professore mi aveva regalato il dubbio.
Cominciai a dubitare di tutto: dalla creazione del mondo alla credibilità di una religione che non aveva pensato un paradiso per i gatti. Cominciai a guardarmi attorno, a scoprire l’Est e l’Ovest, la Resistenza e la passione civile. Mi ritornava in bocca il sapore della mia infanzia libera. Opposi una resistenza sempre più debole. Fui ufficialmente bigotta ancora per qualche mese; dentro, forse lo sono ancora, ma mi tengo a bada.
Ho capito più tardi, e lentamente, la fecondità di quel disastro, ma di questo non ho mai sentito il bisogno di ringraziarlo. Mi sembrava scontato, quella mattina di qualche anno fa in cui lo incontrai alla pescheria, nel modo in cui mi parlava delle diverse aree di rivendita del pesce e della distinzione tra pescatori – col berretto di lana (ma, “attenzione, ci sono quelli fasulli!”) – e rivenditori parassiti, nel modo affettuoso e attento con cui lo ascoltavo, mentre cattedra aula e compagni si dissolvevano nei pesci freschissimi, leggere i segni di un rapporto importante, che durava. E c’era pure il disagio di tradurre in una comunicazione tra amici adulti il vecchio e chiaro codice del professore e dell’allieva.
Come sempre, godeva nel parlare. Gustava le parole nel dire senza pudore dei suoi grandi piaceri di goloso e il rammarico per i limiti impostigli dalla salute: da golosa convenni e riconobbi il maestro.
Non l’ho più rivisto, né ho voluto vederlo malato. Una sorta di pudore fisico, di me o di lui non so bene, mi ha distolto dal guardare il suo grande corpo colpito dal male, la sua nudità di uomo al limite della resa. O forse è il rispetto della mia memoria, la splendida teca dei miei diciotto anni che così ho difeso: egli è stato il mio professore di storia e filosofia al liceo Cutelli nell’anno scolastico 1959-60 e tale è rimasto. Un anno ricco. Nel commentare brevemente la sua morte, mio padre, vecchio di ottantotto anni, mi disse che tutto ormai perdonava a quell’uomo del danno enorme che mi aveva procurato, fuorché una cosa: l’avermi egli accusata – a suo avviso ingiustamente – di aver scopiazzato un tema su Napoleone III: e se fosse stato vero?