Ferdydurke è un’allegoria dell’immaturità e dell’infantilismo che caratterizzano il mondo moderno. Quale luogo è il più appropriato per perseguire questo obiettivo? La scuola naturalmente! La descrizione dell’autore è di una tale feroce comicità che fa sì ridere, ma con un fondo di ripulsa, per chi nella scuola lavora e, in qualche modo, si sente messo alla berlina. Misurarsi, però, anche con quello che suscita riso o irritazione è un indispensabile esercizio per continuare a riflettere sul proprio lavoro.
Witold Gombrowicz, Ferdydurke, Milano, Feltrinelli, 1993, traduzione di V. Verdiani, pp. 43-47
“Il mio istituto merita il massimo appoggio, i nostri metodi di cuculizzazione non temono confronti e il nostro corpo insegnante è selezionato con la massima cura. Vuol vedere il nostro corpo?”
“Con molto piacere”, rispose Pimko. “Si sa che niente influisce sullo spirito quanto il corpo.”
Il preside socchiuse la porta della sala professori, i due uomini vi gettarono uno sguardo discreto e io li imitai. Mi prese un colpo. Nella grande stanza gli insegnanti sedevano attorno a un tavolo, bevendo tè e sbocconcellando panini. Mai m’era successo prima di vedere una simile accolta di squallidi vecchietti. La maggior parte tirava su rumorosamente, uno biascicava, un altro grufolava, un terzo succhiava, un quarto aspirava, il quinto era triste e calvo, e quanto alla professoressa di francese gli occhi le lagrimavano e se li asciugava con la cocca del fazzoletto.
“Non per vantarmi, ” disse il preside con orgoglio, “ma il nostro è un corpo selezionato con cura, quanto di più spiacevole e scostante offra il mercato. Non un solo corpo simpatico, tutti corpi pedagogici, come può ben vedere; e le poche volte che mi trovo costretto ad assumere un insegnante giovane, faccio sempre in modo che abbia almeno una caratteristica repellente. Il professore di storia, ad esempio, purtroppo è nel fiore degli anni e a prima vista parrebbe passabile ma, se ci fa caso, è strabico.”
“La professoressa di francese però mi sembra simpatica, ” osservò Pimko in tono confidenziale.
“Balbetta e lagrima.”
“Ah be’, in tal caso… Ha ragione, non me ne ero accorto. Ma non trova che abbia un’aria interessante?”
“Per carità: non riesco a parlarci un minuto senza sbadigliare due volte.”
“Allora è un altro paio di maniche. Ma hanno il tatto, l’esperienza e la consapevolezza indispensabili per una missione importante come l’insegnamento? ”
“Sono i migliori cervelli della capitale, ” replicò il preside “non ce n’è uno che abbia un’idea sua. Se proprio a qualcuno dovesse venirgliene una, ci penserei io a far sloggiare o l’idea o l’ideatore. Sono nullità innocue, insegnano solo quel che c’è nei programmi scolastici! No, no, nessun pericolo che gli venga un’idea originale.”
[…]
In quel momento un corpo si rivolse a un altro corpo e gli chiese:
“Eh, eh… hm… Che si dice? Che si dice, caro collega?”
“Che si dice?” rispose il corpo, “Calano i prezzi.”
“Calano?” disse il primo corpo.”Vorrà dire rincarano.”
“Rincarano?” chiese il secondo corpo. “No, no, qualcosa è ribassato ”
[…]
“Su Gingio, ora va in classe, la lezione sta per cominciare. …”
[…]
Chissà quando, a un certo punto apparve in cattedra il professore. Si trattava del medesimo corpo triste e sbiadito che in sala professori aveva espresso la significativa opinione sul ribasso dei prezzi. Sedutosi sulla sedia l’insegnante aprì il registro, scosse un peluzzo dal panciotto, tirò su le maniche perché non si consumassero sui gomiti, strinse le labbra, represse un moto interiore e accavallò le gambe. Indi sospirò e tentò di parlare. La gazzarra raddoppiò d’intensità. Urlavano tutti, eccettuato forse Sifone che, concreto, tirò fuori libri e quaderni. Il professore guardò la classe, si aggiustò un polsino, strinse le labbra, le aprì e tacque di nuovo. La scolaresca proruppe in un boato. Il professore aggrottò la faccia, fece una smorfia, si guardò i polsini, tamburellò con le dita, volse il pensiero a cose lontane, tirò fuori l’orologio, lo posò sulla cattedra, sospirò, represse o forse inghiottì nuovamente un moto interiore, o forse sbadigliò, raccolse lungamente le energie e finalmente sbattè il registro sulla cattedra urlando:
“Basta! Silenzio! Comincia la lezione.”
[…]
In quello stesso istante l’intera classe (a eccezione di Sifone e di alcuni suoi partigiani) accusò come un sol uomo il bisogno urgente di andare al gabinetto.
Il professore, detto comunemente Pallore per la cera terrea e assai malsana, fece un sorrisetto astioso.
“Basta!” gridò macchinalmente. “Uscire, uscire! Vi piacerebbe, vero? E io che devo sempre stare qui dentro? Come mai non posso mai uscire? Seduti, non si esce. Mientalski e Bobkowski, vi metto una nota sul registro e se qualcuno dice ancora una parola lo interrogo!”
[…]
“Dunque, che c’è in programma per oggi?” disse severamente e dette un’occhiata al programma. “Ah! Spiegare e illustrare agli allievi perché Stowacki susciti in noi tanto amore e ammirazione. Dunque, signori, prima vi recito io la mia lezione, e poi mi reciterete la vostra. Silenzio!” gridò e tutti si chinarono sui banchi reggendosi la testa tra le mani, mentre Pallore, aperto senza parere l’apposito manuale, stringeva le labbra, sospirava, reprimeva un moto interiore e iniziava a recitare.