“o forse farò anche un ultimo film che avevo pensato prima del ‘Vangelo’; un film ambientato in Africa. Si chiama ‘Il padre selvaggio’ ed è la storia di un giovane poeta negro.” Così raccontava Pasolini a Carla Marzi, in un’intervista del 1964 conservata negli archivi Rai (http://www.teche.rai.it/multiteca/docs/0001/coptxt12.html). Il film non fu mai realizzato; e la sceneggiatura, poco più che un abbozzo, pubblicata solo nel fatale 1975. Nel brano che segue, i tormenti dell’insegnante bianco, una squallida birreria, un dialogo assurdo sulla poesia…
Pier Paolo PASOLINI, Il padre selvaggio, Torino, Einaudi, 1975, pp. 12-19
13. Aula scuola Kado. Interno giorno.
È il primo tema in classe.
L’insegnante lo detta: “Com’è il tuo villaggio?” Ennesimo scandalo negli scolari, che non sono abituati a simili temi che li impegnano direttamente, quasi fisicamente: abituati come sono a parlare di cose accademiche, che non li riguardano. L’insegnante dà loro qualche spiegazione, qualche suggerimento. E, tirannicamente, ricorre alle autorità, infine, per ottenere che essi si mettano al lavoro.
Essi chinano la testa sui loro fogli. E l’insegnante li guarda, passeggia e li guarda. (Il rosa dell’Africa, fuori, con le sue linee antidiluviane, di manghi, di mogani, oltre lo spiazzo delle capanne, affogate nel sole.) Li guarda e la voce interna lo tormenta coi suoi continui, insolubili problemi.
14. Aula scuola Kado. Interno giorno. (Il giorno dopo).
Un disastro. I temi sono inqualificabili: pensieri retorici che, avendo perso la loro sagomatura abitudinaria, arrivano perfino a essere sgrammaticati. E ci sono delle punte umoristiche. Un ragazzo ha parafrasato una poesia romantica e agreste di un mediocre poeta francese, sicché il suo villaggio risulta coi tetti gotici, i mattoni rossi, le beghine, il buon curato, e addirittura la neve!
Davidson non ha svolto il tema. Ha consegnato dei fogli bianchi con qualche incerta, povera parola cancellata.
Nuova scenata dell’insegnante. Il quale non riesce a tenere per sé la sua angoscia e il suo scoraggiamento. Ma li fa pesare ai suoi scolari, un po’ infantilmente, come un bambino capriccioso e deluso. Grida loro, stridulo, che essi non sono più sotto l’autorità e la retorica dei colonialisti: che sono liberi, sono liberi, sono liberi!
I foschi occhi di Davidson lo guardano atterriti.
15. Camerata scuola Kado. Interno-esterno giorno. (Il giorno dopo).
Davidson è seduto, coi suoi poveri occhi sgomenti, sul lettuccio della sua camerata.
Lo guardano il padre e la madre, con le loro narici e i denti da bestie, della fotografia in capo al letto: dalle loro boscaglie, dalla piazza del loro villaggio, con gli stores, i ragazzetti ridenti.
Ha il quaderno sulle ginocchia. E vuole scrivere. Ma non sa cosa scrivere, perché non sa quali sono i suoi sentimenti, a proposito del suo villaggio, rispetto alla cultura che glieli richiede.
Si alza. Si aggira col suo quaderno per la camerata. esce. Ecco la baracche del liceo, vuote, i cortili silenziosi: e laggiù, minacciosa – con i gridi degli animali nella sera che scende – la boscaglia.
Va a sedersi laggiù vicino alla boscaglia, sotto il monumento funereo di un mogano.
Tenta ancora di dar vita a sentimenti che non sa di avere.
Vengono due o tre negri umili: dei facchini, degli aiutanti cuochi, che ridono chiacchieroni e allegri. Vanno a fare legna per la cucina. Uno si ferma accanto a Davidson e Davidson gli parla. Gli chiede del suo villaggio, che è un lontano villaggio dell’interno, nel Katanka. Quello risponde con arguzia, semplicemente, facendo lo spiritoso, ridendo sulla semplicità dei suoi paesani, con la sua allegria contadina.
16. Aula scuola Kodo. Interno giorno. (Il giorno dopo).
L’insegnante fa leggere ad alta voce i temi, perché i ragazzi “sentano” nella prova impegnativa della lettura quello che hanno fatto.
Per primo è Davidson.
Egli comincia a leggere, con voce di agonizzante, e gli occhi che guardano di sotto in su, tetri. Ma il suo tema è molto bello… Incredibile! Con allegria contadina, con gentile rozzezza, con animo di poeta – Davidson ha scritto la sua gente, sua madre, i suoi fratelli, i riti, le superstizioni, le danze… la caccia alle belve… al leone…
Il professore lo sta ad ascoltare, incantato, parola per parola, IMMAGINE PER IMMAGINE.
Tutte le letture di poesie, saranno illustrate da materiale di repertorio relativo alle immagini suscitate dalle poesie.
16. A,B,C,D,E,F,G,H,I
Interni ed esterni del villaggio di Davidson e della foresta, descritti dalla voce di Davidson che legge.
(TEMA)
17. Aula scuola Kado. Interno giorno.
Davidson finisce di leggere. Il professore ha quasi le lacrime agli occhi, non sa far altro che dirgli di essergli grato.
18. Strada di Kado. Esterno giorno.
L’insegnante cammina, per le strade di Kado, verso il centro, nella pace della domenica, con il passo veloce e sicuro di chi è sostenuto da un piacevole pensiero.
La sua voce interna è piena di ottimismo, ansiosa per la prima vittoria didattica ottenuta: l’avvenire è roseo, ritorna pieno il senso di felicità del primo giorno di scuola: l’esaltazione rosa dell’Africa.
Ma ecco là, come in un quadro cubista, coi colori di tavolozza cubista, Davidson e Idris. Sono sotto un muretto calcinante – che acceca di bianchezza – dal cui orlo pende un festone di una cocente tinta viola. Insegnante e scolari si salutano, intavolano una conversazione dapprima timida, paurosa, poi sempre più cordiale. S’incamminano insieme verso il centro della capitale, come giovani amici. L’insegnante chiede al suo bibliotecario come vanno le letture (i ragazzi prendono i libri, o se li tengono lì senza leggerli, o leggendo una pagina al giorno…), chiede a Davidson notizie che integrino il suo tema e così, infine, quando arrivano al centro della città, hanno una confidenza e un’allegria di compagni.
Discorsi più audaci, confidenze ecc. L’amore, le donne ecc.
19. Caffè del centro. Interno giorno.
L’insegnante offre della birra ai suoi scolari. I discorsi oltre che confidenziali si fanno vivaci.
Ora sono i ragazzi che vogliono ricambiare la birra offerta dal professore. Lo invitano a una birreria più familiare a loro, nell’ex quartiere negro, un luogo in cui essi parlano ammiccando, certo un po’ ubriachi della birra.
20. Birreria africana. Esterno-interno giorno.
Il quartiere negro: con le sue case coloniali, il biancore, la polvere, gli stores indiani, i sordidi interni dei locali, il paesaggio colorito, buffo, i portici di legno…
La birreria, al secondo piano d un edificio fragile e sudicio, con un cortile interno e ballatoi pieni negri ubriachi o allegri che girovagano entrando da una stanza all’altra.
Ognuno entra in una stanza privata dove viene servita la birra.
La stanza dove entrano l’insegnante e i suoi scolari, eccitati e sudati, è uno stanzone grigio e vuoto che dà sulla strada. In mezzo un tavolo di legno pesante, con due tre sedie altrettanto grevi intorno. Due lettucci con coperte grige – terribilmente grige – lungo le pareti.
Si siedono. Ogni tanto la porta si apre e qualcuno fa capolino e se ne va. A servire la birra è una giovane negra ricciuta, coi capelli corti come un ragazzo, la veste a fiori ecc.
Ride, allegra, parlando nella lingua di Kado, coi ragazzi.
Poi vengono altre cameriere. E anche esse ridono, ridono. Si presentano all’insegnante, dando le loro mani umili di servette ricciute.
Di fronte a tanta sguaiata e ingenua allegria, Davidson non può fare a meno di confidare qualcosa all’orecchio del professore, ammiccando. Del resto il professore lo sapeva già.
Egli offre da bere alle ragazze ecc.
Le risate si fanno sempre più allegre e fitte, e così i discorsi in africano. Finché anche Davidson e Idris cominciano a ridere, contagiati. Con la loro grande timidezza, che ristagna negli occhi, in fondo.
Devono decidersi a comunicare al loro insegnante-amico che cos’è che fa tanto ridere le ragazze della birreria. Davidson lo dice, interrotto dal riso e straziato dalla timidezza. Le ragazze, quelle pazze, sono curiose di vedere com’è fatto l’insegnante bianco… E ride, ride, povero, fosco Davidson… L’insegnante sente che può farlo, e in certo modo deve farlo: si alza e dice alle due ragazze di seguirlo, allegramente. Esce, ridendo verso Davidson che ride, ride, ardente di birra e di grata allegria.
21. Strada Kado. esterno giorno.
Sono di nuovo tutti e tre per la strada dove si sono incontrati. Deplorevolmente allegri per la birra e per le ore passate insieme, nella sordida birreria.
L’alcool ha sciolto i pudori, le timidezze.
Davidson osa fare una domanda un po’ assurda che altrimenti non avrebbe mai fatto. Chiede all’insegnante:
– Che cos’è la poesia, signore?
E qui un lungo discorso assurdo di ubriachi sulla poesia, camminando per la strada calcinante, cimiteriale di Kado.
– Ma tu lo sai! – dice il professore.
– No, non lo so! – protesta il ragazzo scuotendo la testa ricciuta.
– Sì, lo sai!
– No, non lo so!
Idris, di concerto, ride.
– Sì, lo sai!
– No, non lo so!
– Sei un africano, sei immerso nella poesia/
– No, la poesia è una cosa dei bianchi.
– Canta una canzone del tuo villaggio!
Davidson si mette a cantare uno dei canti del suo villaggio.
Ma il canto è nella sua testa strettamente unito alla danza. E allora cantando si mette a danzare.
Un lungo canto, una lunga danza.
– Ecco, questa è la poesia!
– No, no! – fa Davidson ostinato. – Questa non è la poesia.
– Sì, è la poesia.
– No, no, no!
– È la poesia!
– No, non è la poesia!
Sono sotto il muretto che acceca di bianchezza, dal cui orlo pende un festone di buganvilles, un fuoco d’un rosso così furente da sbavare in un macabro viola.