“…como si sus palabras entusiastas tuvieran un efecto de poderosas lentes”. Potenza delle parole di un maestro! Così un monello della Galizia all’epoca della guerra civile si trasforma, andando a scuola, in un incantato e consapevole allievo grazie al maestro Gregorio. Manuel Rivas, giovane scrittore galego ha la mano felice con i racconti: è bravo nell’intreccio, è visionario nelle descrizioni, ha davvero una “lingua di farfalla”.
Manuel Rivas, La lingua delle farfalle, trad. Danilo Manera, Milano, Feltrinelli, 2005
“Come va, Pardal? Spero che finalmente quest’anno potremo vedere la lingua delle farfalle”.
Il maestro aspettava da tempo che mandassero un microscopio a quelli della pubblica istruzione. Ci parlava tanto di quell’apparecchio che ingrandiva le cose minuscole e invisibili, che noi bambini arrivavamo a vederle davvero, come se le sue parole entusiaste avessero l’effetto di formidabili lenti.
“La lingua della farfalla è una tromba avvolta a spirale come una molla da orologio. Se un fiore l’attrae, la srotola e la infila nel calice per succhiare. Quando avvicinate il dito inumidito a un barattolo di zucchero, non è forse vero che sentite già il dolce in bocca come se il polpastrello fosse la punta della lingua? Beh, così è la lingua delle farfalle.”
E allora tutti invidiavano le farfalle. Che meraviglia. Andarsene in giro per il mondo volando, con quei vestiti da festa, e fermarsi sui fiori come taverne con barili pieni di sciroppo.
Io volevo molto bene a quel maestro. All’inizio i miei genitori non riuscivano a crederci. Cioè non capivano perché volessi bene al mio maestro. Quand’ero un monellino, la scuola era una minaccia tremenda. Una parola che vibrava nell’aria come un battipanni.
“Vedrai quando ti toccherà andare a scuola!”
Due dei miei zii, come molti altri giovani, erano emigrati in America per non finire arruolati nella guerra del Marocco. Ebbene, anch’io sognavo di andare in America solo per non finire a scuola. Di fatto, si raccontavano storie di bambini che scappavano nei boschi per evitare quel supplizio. Ricomparivano due o tre giorni dopo, terrorizzati e muti come disertori del Burrone del Lupo.
Io stavo per compiere sei anni e tutti mi chiamavano Pardal, cioè “passerotto”. Altri bambini della mia età lavoravano già. Ma mio padre era sarto e non aveva terre né bestiame. Preferiva vedermi lontano piuttosto che avermi tra i piedi nel piccolo laboratorio di cucito. Sicché passavo gran parte del giorno scorrazzando per il viale e i giardini pubblici, e fu Cordeiro, lo spazzino che raccoglieva immondizia e foglie secche, a darmi quel soprannome: “Sembri un passerotto”.
Credo di non aver mai corso tanto come l’estate prima di iniziare la scuola. Correvo come un matto e a volte varcavo il confine del viale alberato e continuavo lontano, con lo sguardo fisso sul monte Sinaì, sognando che un giorno o l’altro mi sarebbero spuntate le ali e sarei potuto arrivare a Buenos Aires. Invece non ho mai oltrepassato quella montagna magica.
“Vedrai quando ti toccherà andare a scuola!”
(…)
“…Ti è piaciuta la scuola?”
“Tanto. E non picchia. Il maestro non picchia.”
No, il signor Gregorio non picchiava. Al contrario, sorrideva quasi sempre con la sua faccia da rospo. Quando due di noi litigavano durante la ricreazione, lui li richiamava: “Sembrate due montoni”. E li obbligava a stringersi la mano. Poi li faceva sedere allo stesso banco. Fu così che conobbi il mio miglior amico, Dombodàn, buono, corpulento e goffo. C’era un altro ragazzino, Gladio, con un neo sulla guancia, che avrei pestato volentieri, ma non lo feci mai per timore che il maestro mi ordinasse di dargli la mano e mi spostasse da accanto a Dombodàn. Il modo in cui il signor Gregorio si mostrava arrabbiatissimo era il silenzio.
“Se non vi zittite voi, dovrò tacere io.”
E si dirigeva al finestrone, con lo sguardo assente, perduto verso il Sinaì. Era un silenzio prolungato, sconsolante, come se ci avesse abbandonati in uno strano paese. Mi resi conto presto che il silenzio del maestro era il peggior castigo immaginabile. Perché tutto quello che lui toccava si trasformava in un racconto seducente. Il racconto poteva cominciare da un foglio di carta, e poi passare per l’Amazzonia e la sistole e diastole del cuore. Tutto era collegato, tutto aveva senso. L’erba, la lana, la pecora, il mio freddo. Quando il maestro andava verso il mappamondo, facevamo attenzione come se si illuminasse lo schermo del cinema Rex. Sperimentavamo la paure degli indigeni americani nell’udire per la prima volta il nitrito dei cavalli e le schioppettate degli archibugi. Andavamo in groppa agli elefanti di Annibale tra le nevi delle Alpi, sulla strada di Roma. Combattevamo con bastoni e pietre a Ponte Sampajo contro le truppe napoleoniche durante la guerra d’indipendenza. Ma non c’erano solo battaglie. Fabbricavamo falci e vomeri nelle ferriere dell’Incio. Scrivevamo canzonieri d’amore in Provenza o nel mare di Vigo. Scolpivamo il Portico della Gloria nella cattedrale di Santiago. Piantavamo le patate venute dall’America. E in America emigrammo quando arrivò la peste della patata.
“Le patate sono venute dall’America” dissi a mia madre all’ora di cena quando mi mise il piatto davanti.
“Figurati se sono venute dall’America. Le patate ci sono sempre state!” sentenziò lei.
“No, prima si mangiavano castagne. Anche il granturco è venuto dall’America.” Era la prima volta che avevo la chiara sensazione che grazie al maestro io sapevo cose importanti del nostro mondo che loro, i miei genitori, ignoravano.
Ma i momenti più affascinanti della scuola erano quando il maestro parlava degli animali. I ragni d’acqua inventavano il sottomarino. Le formiche allevavano un bestiame che dava latte e zucchero e coltivavano funghi. C’era un uccello in Australia che dipingeva il suo nido a colori con una specie di olio che fabbricava usando pigmenti vegetali. Non lo scorderò mai. Si chiamava tilonorinco o uccello giardiniere australiano. Il maschio metteva un’orchidea nel nuovo nido per attirare la femmina.
(…)
“I maestri non guadagnano quel che dovrebbero” sentenziava, con una certa solennità, mio padre. “Sono loro i fari della Repubblica” …
E poi?
A questo punto la bella storia ha un rovesciamento: perché la guerra civile esplode e il tradimento fa parte dell’essere umano. Così il racconto finisce con una nota molto amara, e le belle cose imparate diventeranno frecce velenose…