Siamo nel dopoguerra ed Ariosto Aliquò, detto Osto, diplomato maestro, senza speranza di trovare lavoro, se non qualche supplenza qua e là, decide di lasciare la Sicilia per tentare di insegnare nel Polesine. Eccolo maestro, precario naturalmente, che deve trovare, anzi attirare con lusinghe, degli adulti analfabeti e convincerli a frequentare la scuola per imparare a leggere e scrivere.
In questo modo avrà uno stipendio regolare, molto basso ovviamente, degli allievi e niente altro: neppure un’aula.
Il precariato e un basso stipendio caratterizzano ancora l’insegnamento; certo le condizioni in cui lavora Osto sono disperate, non paragonabili a quelle attuali; forse vi erano, però, attese e speranze che, oggi, si sono come sgretolate.
Gian Antonio Stella, Il maestro magro, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 44-62
[…] “Che mestiere fa? Sa, i carabinieri…”
“Il maestro.”
“Sarà dura, per lei…”
“Conosce la legge dei maestri magri?”
“No.”
“È una vecchia legge. Fatta ai tempi del fascismo, credo. O forse prima ancora. Non sono in tanti a conoscerla, ma da noi nel Mezzogiorno è stata usata abbastanza. Io stesso l’ho già usata, una volta Fu fatta per combattere l’analfabetismo. Sa che sono ancora sette milioni e mezzo gli italiani che non sanno leggere e scrivere? Dice dunque questa legge che se un maestro disoccupato riesce a mettere assieme una classe di persone adulte che non sanno né leggere né scrivere, può chiedere di occuparsene e ha diritto a uno stipendio. Certo non lo stipendio intero. Fatichi, a mangiarci. Mica per altro la chiamano ‹‹la legge dei maestri magri››.”
“Un pescatore di analfabeti!” rise una voce di donna.
[….]
“Mi comprerò una bicicletta e batterò le contrade. So che l’analfabetismo…”
“Ah, sì. È pieno di gente che non sa leggere e scrivere. Ma convincerli a venire a scuola… Sono curiosa di vederli.”
[…]
“Facciamo uno scambio: lei viene a suonare alla festa di san Martino e poi ad aprile al matrimonio di mio fratello Marieto, vicino a Pila, e noi le diamo tre donne e mio cognato Bepi.”
“Non ho capito.”
“Non deve mettere su una classe? Io in cambio della musica nei giorni che le ho chiesto gliene do quattro, di scolari. Oh! Gnanca on scheo! D’accordo? Gnanca on scheo! “
“Gliel’ho detto che è gratis.”
“Ecco. Senta, maestro, ho scambiato due parole anche col Giobatta Beltrame.”
“Continui…”
“Pensavamo che d’inverno, quando non c’è tanto da fare, fin che non cominciamo il lavoro nei campi… Anche io e lui… Solo che non ci piace far la parte dei bambini a scuola, mi spiego?”
“Vi faccio capoclasse.”
“Comandiamo noi?”
“Comandate ‹‹ anche›› voi”
“Anche il Ciobatta, però, ha un cognato che si sposa.”
“Devo suonare?”
“Lui ci conta. Primo sabato di maggio.”
“Sfruttatori….” ammiccò.
“La scuola ce l’ha?”
“No.”
“C’è un magazzino abbandonato, vicino a casa nostra. È un po’ un disastro e non c’è il camino, ma se riusciamo tutti insieme a comprare una stufa a carbone… O se don Olimpo ci dà quella vecchia, che tiene dietro la sacrestia…”
[…]
“…. Non pensavo fosse tanto difficile fare scuola a una classe di adulti. Credevo che il problema più grosso fosse tirar su la classe, e lo so quanti pomeriggi del sabato, quante domeniche e quante feste comandate mi sono giovato impegnandomi a suonare la fisarmonica per anni, pur di rastrellare uno per uno i miei scolari. Ma anche quel problema, come le carte che mi ha fatto fare il provveditorato prima di darmi il via libera, mi sembra oggi quasi secondario, rispetto al lavoro vero. Non ho libri, non ho quaderni, non ho carte geografiche da appendere al muro, non ho penne, lavagne, gessi, gomme, calamai… Devo andare alle elementari di Adria a elemosinare qualche vecchio sussidiario o girare per le case a recuperare vecchi libri scolastici fascisti.”
“Ne trovi?”
“Sì, ne trovo. Clandestinamente. Si corrono rischi, però, a usarli. So di maestri che, abituati per vent’anni a insegnare in un certo modo e con certi testi, hanno continuato anche a guerra finita e l’hanno pagata cara. Magari non erano manco fascisti. Magari non si erano mai sporcati le mani ed erano andati avanti così, per inerzia. Ma l’hanno pagata cara. Sarebbe il colmo, se dopo avermi fatto mancare tutto mi rinfacciassero l’uso degli unici libri che trovo gratis. A parte i rischi, poi, sono talmente gonfi di retorica…”
“Non dirmi che non te li ricordavi così!”
“Mah… Senti questo dettato: ‹‹Voi non potete sapere, cittadini di città, quanto sia bella una zappa, una grande zappa d’argento tra le mani nere del contadino che frange i sassi nascosti, mozza le radici vecchie, rompe la terra asseccata… Insieme allo scettro del re, al bastone del pastore, alla spada del soldato, alla penna del poeta, essa è degna di essere lodata dalla nostra voce…››. Saranno anche parole di Giovanni Papini, ma mamma mia!”
“E come te la cavi?” si incuriosì Ines.
“ Strappo le pagine, Dio mi perdoni. Strappo le pagine per purgarle oppure, dove proprio non posso perché c’è a fianco un testo innocente che mi può servire, ci incollo sopra con la colla di farina della carta da salumiere blu. Gli archivisti che domani vorranno studiare il ventennio ci malediranno. Sai cosa faccio, spesso? Uso i giornali. Ma i miei scolaretti, anche quelli di sessant’anni come la suocera di Nane, sono per un verso adulti, per un altro bambini. Parlano solo il dialetto, conoscono solo a orecchio poche parole di italiano, non ascoltano la radio… Così finisco per ripiegare su testi della pubblicità. Gli unici, che per vie misteriose, entrano anche in casa loro. Gli unici di cui conoscono le parole.”