Nell’accademia di Lagado, capitale di Balnibari, Lemuel Gulliver si intrattiene con una serie di inventori. Due delle invenzioni presentate potrebbero fornirci utili indicazioni nel campo della didattica.
Il luogo è immaginario e l’intento satirico; ma, a ben vedere, le idee, che si possa scrivere su argomenti di cui non si sa assolutamente niente e che la conoscenza sia somministrabile in pillole da inghiottire, circolano ampiamente nel nostro realissimo mondo. Allora, tenuto conto dei progressi raggiunti da scienza e tecnologia, perché non ripensare alle invenzioni, a quel tempo ancora rozze ed imperfette, degli accademici di Lagado?
Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, trad. di C. Formichi, Milano, Mondadori, 1990, pp. 178- 181
Il primo dei professori che vidi stava in un’aula amplissima, circondato da quaranta scolari. Dopo i convenevoli, egli, visto che era tutto intento a guardare una macchina, la quale occupava in lungo e in largo quasi tutta l’aula, mi disse: ‹‹Ella, forse, si stupisce di vedermi lavorare all’impresa di far progredire le scienze speculative con mezzi pratici e meccanici; eppure il mondo non tarderà ad accorgersi della utilità delle mie ricerche, ed io mi lusingo che pensiero più nobile mai zampillò dal cervello d’un uomo.›› Passò poi a segnalare le ben note difficoltà che si parano a coloro che vogliono apprendere un’arte o una scienza attenendosi al solito metodo; mentre, in grazia alla sua invenzione, la persona più ignorante, con poca spesa e uno sforzo muscolare minimo, avrebbe potuto scrivere libri di filosofia, poesia, politica, legge, matematica e teologia, senza bisogno alcuno di genio o di studio. Mi condusse, quindi, vicino alla macchina, lungo la quale erano schierati i suoi discepoli. Situata nel bel mezzo dell’aula, misurava venti piedi quadrati. La superficie risultava di vari pezzetti di legno, grossi press’a poco come dadi, alcuni di maggiore dimensione degli altri. Erano tutti congiunti da esili fili di ferro. Incollata sopra le quattro facce dei pezzetti di legno era della carta, e su questa si trovavano scritte tutte le parole della loro lingua, coniugate nei diversi modi e tempi e declinate nei vari casi, ma senza ordine veruno. Il professore m’invitò a prestare attenzione, ché appunto s’accingeva a mettere in moto la macchina. Ciascun discepolo prese, al cenno del maestro, un manico di ferro (ce n’erano quaranta fissati intorno agli orli della macchina) e d’un tratto lo fece girare. Naturalmente la disposizione delle parole cambiò in tutto per tutto. Il maestro ordinò allora a trentasei scolari di leggere pian pianino i vari righi così come apparivano sulla macchina; e quando quelli trovavano tre o quattro parole unite insieme che potevano far parte d’una sentenza, le dettavano ai quattro rimanenti discepoli che fungevano da scrivani. Questo lavoro fu ripetuto tre o quattro volte, e a ogni girata di manico, per il congegno speciale della macchina, le parole cambiavano posto in seguito al rovesciarsi dei quadratini di legno.
Gli studenti, tutti i giorni per sei ore, erano occupati in questo lavoro, e il maestro mi mostrò una collezione di grossi volumi in folio, contenenti monche sentenze, che egli proponeva di legare insieme per dare al mondo, in base a tanto ricco materiale, un organamento completo di tutte le arti e di tutte le scienze.
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Visitai, infine, la scuola di matematiche, dove il maestro impartiva il suo insegnamento con un metodo che in Europa si stenterebbe perfino a immaginare. Teorema e dimostrazione venivano nitidamente scritti sopra un’ostia sottile con inchiostro composto d’un’essenza cefalica. Lo studente era tenuto ad ingoiarla a stomaco vuoto, e, per tre giorni successivi, a mangiare soltanto pane e acqua. Via via che l’ostia era digerita, la essenza saliva al cervello portando seco il teorema. L’esito, però, non era stato fino allora conforme all’aspettativa, sia per causa di qualche sbaglio nelle dosi della composizione, sia per la birberia dei ragazzi, i quali, avendo a schifo quel bolo, di solito vanno a nascondersi e lo vomitano prima che possa fare effetto. Nessuno, inoltre, è riuscito ancora a persuaderli di praticare rigorosamente la lunga astinenza che la prescrizione richiede.