Una notizia letta casualmente: la casa editrice Neri Pozza ha ripubblicato il romanzo di Betty Smith, “Un albero cresce a Brooklyn”. Il libro, uscito nel 1943 e tradotto per la prima volta in ita-liano nel 1947, era scomparso dalle librerie ormai da molto tempo. Mi ricordo di averlo letto una quarantina di anni fa. Lo cerco, lo ritrovo con una certa fatica, d’impulso ritorno a leggerlo. Una lettura diversa: sono cambiate, infatti, le angolature attraverso le quali mi accosto, ora, ad un testo. Un’influenza, senza dubbio, la esercita il mio essere inse-gnante: conferisco un rilievo particolare a certe pagine.
Questa è la motivazione che mi porta a proporre un brano di questo romanzo, anche per il males-sere e il disappunto che ne hanno accompagnato la lettura.
Betty Smith, Un albero cresce a Brooklyn, trad. di G. Cicconardi, Milano, Oscar Mondadori, 1968, pp. 326-329.
“ Quando gli altri ragazzi andarono via, Francie e la maestra rimasero sole nell’aula. Gli ultimi quattro compiti di Francie erano sulla cattedra:
‹‹Ebbene, Francie, che cosa accade ai tuoi compiti?››
‹‹Non so signorina.››
‹‹Tu eri una delle mie migliori alunne. Scrivevi così graziosamente. Mi faceva piacere leggere i tuoi compiti. Gli ultimi, invece…›› E la maestra sfogliava i temi di Francie.
‹‹Eppure ho verificato l’ortografia. Ho fatto attenzione a scrivere con una bella calligrafia. Io…››
‹‹Intendo parlare del soggetto Francie.››
‹‹Ma lei ci ha detto che potevamo scegliere noi il soggetto.››
La signorina Gardner ebbe un gesto d’impazienza:
‹‹La povertà, la fame, l’ubriachezza non sono dei soggetti. O piuttosto sono dei brutti soggetti. Si ammette che queste cose esistano, ma non bisogna parlarne.››
‹‹Di che cosa si può parlare?›› Senza volerlo Francie aveva ripetuto la parola della maestra.
‹‹Bisogna sforzare la propria immaginazione e si scopre la bellezza. Come tutti gli artisti anche lo scrittore deve andar a caccia della bellezza.››
‹‹Ma… che cos’è la bellezza?››
‹‹Non c’è migliore definizione di quella di Keats: “ La bellezza è la verità, la verità fedele…”.››
‹‹Ma i miei racconti sono veri›› protestò Francie prendendo il coraggio a due mani.
‹‹Che ridicolaggine!›› esclamò la maestra. Ma subito si riprese ed aggiunse: ‹‹Con la parola verità ci riferiamo alle cose permanenti, alle stelle sempre presenti, al sole che sorge sempre, alla vera nobil-tà dell’amore umano, dell’amore materno, dell’amore per il paese natio…››
‹‹Vedo, vedo›› annuì Francie.
La signorina Garnder proseguì con foga, ma Francie non rispose più se non mentalmente e le sue risposte erano molto amare.
‹‹… l’ubbriachezza non è né la verità né la bellezza. È un vizio. Gli ubbriachi sono al loro posto in prigione e non nei racconti. E la povertà! La povertà non ha scuse. C’è abbastanza da fare per tutti coloro che desiderano lavorare. Se ci sono dei poveri è che sono pigri. Non c’è bellezza nella pigri-zia.››
(Come era possibile immaginare che mamma fosse pigra?)
‹‹… la fame è forse della bellezza? N, la fame non è bella. Non è necessario avere fame. Ci sono delle opere di beneficenza ben organizzate. Non è necessario aver fame.››
Francie aveva stretti i denti. Pensava alla mamma che detestava la parola “beneficenza”, e che ave-va educati i figli ad odiarla…
‹‹ Non fraintendermi. Non che io ammiri ciecamente i ricchi. Mio padre era un pastore protestante ed aveva un piccolo salario…››
(Ma era pur sempre un salario, signorina Garnder.)
‹‹… e mia madre non ebbe che un corteo di cameriere maleducate, delle contadine…››
(Comprendo, comprendo. Lei era povera, ma…servita.)
‹‹… spesso eravamo senza domestica e mia madre doveva far da sola tutti i servizi di casa…››
(Mia madre fa i servizi di casa e lavora dieci volte di più in altre case.)
‹‹…avrei voluto iscrivermi all’università ma i nostri mezzi non me l’hanno permesso e mio padre è stato obbligato a mandarmi in un piccolo collegio tenuto da religiosi… ››
(Ammetta per lo meno che lei non ha avuto nessuna difficoltà per frequentare un collegio.)
‹‹… e, credimi frequentare uno di quei collegi significa essere poveri. Anche io ho conosciuto la fame. Spesso mio padre non è stato pagato alla fine del mese ed allora non avevamo da mangiare. Una volta abbiamo vissuto per tre giorni bevendo del tè e mangiando patate arrosto… ››
(Se lei sapesse che cosa vuol dire aver fame!)
‹‹… ma sarei veramente meschina se scrivendo non mi occupassi d’altro che della povertà e della fame. Vero?››
Francie non rispose.
‹‹Vero?›› insisté con enfasi la signorina Garnder.
[….]
La maestra si alzo. Poi continuò: ‹‹Ho parlato tanto a lungo con te perché onestamente credo che ne valga la pena e che si possa sperare in te. Ora che abbiamo esaminato a fondo la situazione credo che rinunzierai a scrivere delle cose sordide››.”