Paese e periodo nei quali è ambientata la vicenda non hanno molta importanza, la possibilità di essere segnati con infamia si ripropone sempre anche se in forme diverse e nuove. Costanti sono l’individuazione del diverso da allontanare, respingere o aggredire e il senso di colpa e di vergogna che si prova posti di fronte alla propria alterità. Significativo che il luogo che fa da cornice all’episodio, raccontato in queste pagine, sia una scuola che riflette, in questo caso con accondiscendente indifferenza, barriere e pregiudizi sociali.
J. M. Coetzee, Infanzia, trad. di F. Cavagnoli, Torino, Einaudi, 2001, pp. 19- 22
Il grande segreto della sua vita a scuola, il segreto che a casa non confida a nessuno, è che è diventato cattolico romano, per tutti i fini pratici lui è cattolico.
È un argomento difficile da affrontare in casa perché la sua famiglia non è niente. Sono sudafricani, naturalmente, ma anche il fatto di essere sudafricani è un poco imbarazzante e pertanto nessuno ne parla, dato che non tutti coloro che vivono in Sudafrica sono sudafricani, o veri e propri sudafricani.
In materia di religione non sono certamente niente. Neppure nella famiglia di suo padre, che è molto più innocua e ordinaria di quella di sua madre, c’è qualcuno che va in chiesa. Lui stesso ci è stato soltanto due volte in vita sua: una per essere battezzato e una per celebrare la vittoria nella Seconda guerra mondiale.
La decisione di essere cattolico è stata presa su due piedi. Il primo giorno nella nuova scuola, mentre il resto della classe si avvia verso l’aula magna per la funzione, il maestro trattiene lui e gli altri tre bambini nuovi. ‹‹Di che religione sei?›› chiede a ciascuno. Lui lancia un’occhiata a destra e a sinistra. Qual è la risposta giusta? Quali sono le religioni da scegliere? È come con i russi e gli americani? Viene il suo turno. – Di che religione sei? – chiede il maestro. È tutto sudato, non sa cosa rispondere. – Sei cristiano, cattolico romano o ebreo? – domanda con impazienza. – Cattolico romano, – dice.
Quando l’interrogatorio è finito, il maestro fa cenno a lui e a un altro bambino che ha detto di essere ebreo di restare lì; i due che hanno detto di essere cristiani raggiungono gli altri.
Aspettano di vedere che cosa succederà loro. Ma non succede nulla. I corridoi sono vuoti, l’edificio silenzioso, non c’è nemmeno un maestro.
Si avventurano in cortile dove raggiungono l’accozzaglia di bambini nelle loro stesse condizioni. È il periodo in cui si gioca a biglie; nel poco familiare silenzio del campo da gioco vuoto, con i richiami delle colombe nell’aria e il tenue, lontano riecheggiare dei canti, giocano a biglie. Il tempo passa. Poi suona la campanella che segnala la fine della funzione. Gli altri ritornano marciando in fila, classe dopo classe. Alcuni sembrano di cattivo umore, – Jood! – gli sibila in afrikaans un ragazzino passandogli accanto. Giudeo! Quando si riuniscono ai compagni, nessuno rivolge loro un sorriso.
L’episodio lo turba: Spera che il giorno dopo il maestro lo trattenga ancora con i nuovi arrivati e gli chieda di fare un’altra scelta. A quel punto lui, che chiaramente ha commesso un errore, potrà correggersi e dichiarare di essere cristiano. Ma non gli concedono un’ulteriore possibilità.
La scena della separazione delle pecore dai capri si ripete due volte alla settimana. Mentre ebrei e cattolici vengono lasciati al loro destino, i cristiani si riuniscono per cantare gli inni e ascoltare la predica. Per vendicarsi di questo, e di ciò che gli ebrei hanno fatto a cristo, a volte i ragazzi afrikaner – grossi, brutali, bitorzoluti – afferrano un ebreo o un cattolico e lo prendono a pugni nei bicipiti, pugni ravvicinati, cattivi, con le nocche delle dita, o gli sferrano una ginocchiata nelle palle, oppure gli torcono le braccia dietro la schiena finché lui non invoca misericordi. – Asseblief ! – piagnucola il bambino. Per favore ! – Jood! – sibilano loro. – Jood! Vuilgoed ! – Giudeo! Zozzone!
Un giorno, durante l’intervallo del pranzo, due ragazzi afrikaner lo mettono con le spalle al muro e poi lo trascinano in fondo al campo da rugby. Uno è grasso e gigantesco. Lui li supplica. – Ek is nie ‘n Jood nie, – dice. Non sono ebreo. Propone loro di fare un giro sulla sua bicicletta per tutto il pomeriggio. Più lui farfuglia, più il ciccione sorride. È questo evidentemente che gli piace: la supplica, l’umiliazione.
Il ciccione tira fuori qualcosa dal taschino della camicia, qualcosa che spiega perché lo hanno trascinato in quell’angolo tranquillo: un bruco verde che si contorce tutto. L’amico gli immobilizza le braccia dietro la schiena; il ciccione gli preme le mandibole finché lui non apre la bocca, poi ci infila dentro con forza il bruco. Lui sputa fuori, già spiaccicato, già che perde succhi e umori. Il ciccione glielo schiaccia sulle labbra, gliele imbratta. – Jood! – dice pulendosi le mani sull’erba.
[…]
I ragazzi cattolici più grandi lo circondano e interrogano: è stato al catechismo, si è confessato, ha fatto la comunione? Catechismo? Confessione? Comunione? Non sa nemmeno cosa vogliono dire quelle parole. A Città del Capo ci andavo, – dice evasivo. – Dove? – chiedono. Non conosce i nomi delle chiese di Città del Capo, ma neppure loro, li conoscono. – Venerdì vieni al catechismo, – gli ordinano. Non vedendolo, informano il prete che in terza c’è un apostata. Il prete gli manda un messaggio, che loro gli portano: deve andare al catechismo. Ha il sospetto che se lo siano inventato, ma il venerdì successivo rimane a casa, si nasconde.
[…]
I ragazzi cattolici lo assillano e scherniscono, i cristiani lo perseguitano, gli ebrei invece non esprimono giudizi. Gli ebrei fanno finta di niente. Anche gli ebrei portano le scarpe. Si sente abbastanza a suo agio con loro. Gli ebrei non sono così male.