“La Banda dei sospiri” venne pubblicato per la prima volta nel 1974, poi, fu riproposto, insieme ad altri due racconti, in un volume: “Parlamenti buffi”. Nell’introduzione : “Congedo dell’autore al suo libro ” Celati spiega lo strano titolo: parlamento sta per discorso, per un parlare per parlare di personaggi che recitano la propria storia: “il che non avviene senza grande spreco di fiato, e ben poco costrutto, a parte il benedetto ridere che fa bene.” (p. 8 )
Ai giorni nostri queste stesse vicende scolastiche, narrate dal protagonista, classificate come atti di bullismo, finirebbero sui giornali, corredate da immagini catturate coi telefonini. Qui appaiano nella forma dello sberleffo, del lazzo, della difesa o della punizione congegnate con estro creativo. Una lettura che potrebbe consentire, come un filtro di decantazione, di affrontare certe problematiche senza essere preda di reazioni irriflesse.
G. Celati, La Banda dei sospiri. Romanzo d’infanzia, in id., Parlamenti buffi, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 169 -172
“Nella classe scolastica si davano spesso pugni. Il maestro pelatone voleva insegnarci che i pugni sono da villani. Il compagno ripetente gli faceva dietro il gesto di tirarsi un manichetto. Questo compagno poi è diventato un bravissimo giocatore di calcio, chiamato col soprannome d’un famoso giocatore di calcio soprannominato Veleno. Veleno aveva l’abitudine, qualsiasi cosa dicesse il maestro, di fare il gesto di tirarsi un manichetto, o addirittura se il maestro alla lavagna scriveva una bella poesia poniamo di Giosuè Carducci, lui alzatosi si estraeva il manico e rispondeva non visto a quel modo. Al pelatone piacevano enormemente le poesie di Giosuè Carducci e sempre voleva farcene studiare a memoria, così è venuta l’abitudine che appena i compagni sentivano pronunciare quel nome, subito si estraevano il manico dai pantaloni, E questo era chiamato il presentatarm a Giosuè Carducci.
[…]
Veleno era un grande nemico del maestro pelatone e non ammetteva di doversi inchinare ai suoi ordini di fare i compiti. Ci spiegava a tutti che il maestro essendo matto di cervello, quei compiti doveva farseli lui e non noi. Il maestro entrava alla mattina nella classe scolastica e Veleno saltava su a dire: come sta signor maestro oggi di testa? Perché nella sua teoria era pelato per questo, perché aveva studiato e letto troppi libri e non gli funzionava più bene la testa. Dunque ogni mattina gli chiedeva così, e noi tutti a ridere e scorpacciarci perché il maestro non sapeva che replica dare. Certuni si aprivano la bocca con due mani per ridere di più, e altri facevano tutti dei gesti di andare nei matti, con le braccia per aria o tirandosi le orecchie. Così che lui si confondeva, anche perché molti andavano avanti a chiedergli dal banco: come sta signor maestro? come sta? come sta? come sta? Gli giravano gli occhi dalla confusione.
Altre volte mentre il pelatone stava spiegando il libro di letture, sempre con quelle parole inverosimili che ci voleva far imparare, Veleno accendeva un fuocherello per terra urlando che il suo quaderno ha preso fuoco da solo. Corre il maestro strabiliato a spegnere il fuocherello con i piedi. Allora il ripetente gli attaccava alla schiena il seguente cartello: pelatone da vendere. E tutti si spanciavano per il corso della giornata a leggere quella frase, dandoci botte sulle spalle e qualcuno estraendosi il manico, perché diceva che gli scappa da ridere anche a lui.
Poi quando suona il campanello per la fine delle ore scolastiche, correvano a dargli su il paletò al maestro. Lo facevamo per finta cortesia, ma in realtà per guardare da vicino la sua zucca pelata e, essendo lui piccolo, specchiarci. Alcuni facevano come le donne che si guardano allo specchio, cioè i musi e le moine di ammirarsi. Con uno che faceva finta di svenire dall’ammirazione di se stesso, altri che fingevano di pitturarsi gli occhi specchiandosi nella testa pelata, e tutti insomma guardandolo da vicino con gioia enorme di divertimento.
Non era cattivo questo maestro pelatone, ma insisteva un po’ troppo a darci da studiare a memoria le poesie di Giosuè Carducci e a volerci leggere quel libro di letture. Così si prendeva da noi quelle punizioni. Veleno sorvegliava che, oltre a tirarsi un minimo di quattro o cinque manichetti al giorno, tutti i compagni non facessero i compiti assegnati. Se qualcuno li faceva erano minacce e botte. Abbiamo preso per strada un giorno due compagni che volevano sempre fare i compiti, e gli abbiamo fatto un rapimento portandoli in una stradina stretta. Gli abbiamo voluto dare una lezione e gli abbiamo pisciato nelle cartelle. Io ho tirato un pugno nell’occhio a uno perché si era arrabbiato con me innocente, che io invece avevo pisciato nella cartella di quell’altro. Così l’ho punito. Quell’altro voleva scappare ma noi lo abbiamo legato a un lampione per fargli un processo. Quello del pugno nell’occhio è fuggito a gambe levate per paura di prendersi da me altre botte. A quello del lampione Veleno gli faceva la seguente tortura, gli bisbigliava nell’orecchio: tua mamma ha belle tette? tua mamma è puttana? tua mamma ha la sifilide? E l’altro solo piangeva.
Il maestro pelatone un giorno voleva denunciare ai carabinieri gli ignoti ladri che in classe rubano i libri di lettura ai ragazzi che vogliono leggerli. Gli abbiamo fatto arrivare un messaggio che diceva: zitto o la passi male. Ma lui non ha badato credendosi un uomo di fegato. Così abbiamo inventato per lui la punizione della settimana nera, che consisteva in questo: appena lui si volta un nostro tiratore lo prende nel collo con mosche morte intinte nell’inchiostro. E quando il maestro se ne trova una nella mano, toccandosi il collo e dunque sporcandosi ancora di più, lo confondevamo con questa spiegazione: sono mosche della palude nera. Inventavamo la leggenda della palude nera, che aveva mosche così. Mosche che si prende il tifo e la lebbra il cancro e la rogna a essere pizzicati. Dunque il pelatone si prendeva anche lo spavento, perché alcuni scolari cadevano morti sul banco toccati dalle mosche e altri si facevano vedere boccheggianti per terra chiedendo dell’acqua. Lui restava strabiliato senza parole davanti alla scena della morte di quei bravissimi attori, e in più andava a casa pieno di schizzi nel collo e nella camicia. “