Venezia, Palazzo Franchetti dal 3 dicembre 2009 al 7 marzo 2010
“Ho bisogno di questa solitudine, del silenzio, di restare immobile in questa natura, in mezzo a questo orizzonte immenso – ho bisogno di restare così sia sul Carso, sia in montagna, di sentirmi tutt’uno con questo paesaggio.”
Zoran Music
In fondo ciò che è davanti a me non è una cosa nuova, è simile, se non identico a quello che ho portato con me, quello che è con me da sempre, forse fin dall’infanzia, e che però ogni tanto sbiadisce, minaccia di andarsene e in quel momento ho bisogno di un nuovo impulso, di un aiuto, di un nuovo “vedere” per farlo uscire rinforzato e fresco.
Così – guardando – passa il tempo, anche delle ore, comincio a vivere questa natura e mi sembra di far parte di questo universo. Pian piano tutto comincia a muoversi intorno a me. In questo silenzio cominciano a succedere tante cose, cose piccole, forse poco importanti, che per me sono però essenziali per potermi mettere a disegnare: disegno e osservo cosa succede attorno; mi sembra quasi che non sono qui per lavorare ma per meravigliarmi di questa piccola vita che mi circonda. Tutto questo crea un ambiente indispensabile, uno stato di benessere che spesso si avvicina all’euforia – questa sensazione di felicità dovrà durare anche più tardi nello studio per continuare nella pittura dopo quei disegni.
Sto quindi lì seduto su un sasso, immobile e tutto pian piano diventa vivo: un porcospino si azzarda a uscire di sotto……. un’allodola che ha cantato, montando verso il cielo,
Si lancia a picco e si appoggia sul sasso vicino, e la farfalla che si è aggrappata alla matita, non vuole andarsene. Il tempo passa ed io ho l’impressione di vedermi come nello specchio in questo paesaggio – mi rimanda la voce e il mio disegno è come l’eco di quello che io ho proiettato contro queste rocce.
È importante per me questa vita. Tutto si muove in silenzio, mi sembra perfino di sentir crescere l’erba e non mi accorgo neanche che mi sono lasciato andare a sognare.”.
Venezia, luglio 1979
Quanti riverberi nei libri di Rigoni Stern, De Luca e Pahor!
Venezia che rende omaggio a Zoran Antonio Music (Gorizia 1909 – Venezia 2005) con un’importante mostra volta a celebrare il centenario della nascita dell’artista. Una significativa voce del Novecento europeo: Zoran Music, di origini dalmate, perciò con nome italiano e in lingua madre, trova, infatti, oggi come ieri, a Venezia la sua città di adozione. Terra di fusione tra oriente e occidente, la città lagunare è fonte d’ispirazione e punto di riferimento costante per l’artista, durante la sua intera traiettoria pittorica. Gorizia ne riserba il culto e Bologna alcuni acquarelli significativi.
La mostra si compone di oltre ottanta opere, tra oli e lavori su carta, alcuni dei quali inediti ed eccezionalmente esposti per la prima volta. Una preziosa occasione per immergersi nel mondo reale e immaginifico di Music, come abbiamo fatto nella visita alle sue opere su carta a Dozza imolese sotto la guida di Riccomini e Marilena Pasquali nell’estate 2007.
Zoran
Un viandante mitteleuropeo, sempre in cammino in diversi territori dello spirito e diverse aree europee, è nato a Gorizia, ancora cittadina dell’impero austro-ungarico, crocevia di razze, culture e idiomi.; vive gli anni dell’infanzia in Dalmazia e poi da profugo in Stiria e Corinzia; seguono l’Accademia a Zagabria, soggiorni a Praga, in Francia, in Spagna sulle tracce di Goya, esposizioni nella Trieste post-imperiale, (dove incontra la pittrice Ida Cadorin, sua futura moglie), e poi a Venezia. Dopo la terribile esperienza di deportazione a Dachau ritorna a Venezia nel 1946, dove vivrà, dal 1951 in alternanza con Parigi, fino alla morte, avvenuta nel maggio 2005.
La mostra
Il percorso della mostra indaga soprattutto gli ultimi trent’anni dell’ arte di Music, quando la sua figurazione scarnificata ed essenziale proviene prima ancora di averlo verbalizzato a se stesso, dagli orrori di Dachau, e continua negli anni ‘90 con il pre-sentimento di” Figure grigie”: figure che resistono alla forza che le disgrega e solo in tal modo acquistano il diritto ad una diversa esistenza.
“Viandante” tra La natura e l’uomo, il paesaggio e la figura, consentiranno prima di anticipare a se stesso la vecchiaia e poi di raccontarla con dignità e pathos mentre la carne si consuma fino alla morte.
Fonte di ispirazione inesauribile è inoltre la moglie Ida, compagna di una vita consacrata alla pittura; la ritrae miriadi di volte, fino al “Doppio ritratto”, lui dipinge il loro modo di essere coppia, capace di slanci affettivi profondi.
Immancabili infine le visioni di una Venezia interiore. È la città dove Music si sente libero, dove vive di una semplicità quasi monacale e dove dipinge quotidianamente nel suo studio, sottotetto di Palazzo Balbi Valier a San Vio. Negli ultimi anni, Venezia passa dai bagliori di “Piazza San Marco”, alle tenebre di inchiostro e carboncino interrotto dall’ aranciato di un pastello grasso: sempre suggestiva visione della Punta della Dogana, Canale della Giudecca, del Molino Stucky,
Nuclei tematici
Il percorso della mostra è concepito come un “viatico” che richiama la natura errante di Zoran Music e la sua esperienza peregrina tra l’est e l’ovest dell’Europa. L’esposizione si articola in otto nuclei tematici, “zone d’intensità” che cadenzano l’evoluzione poetica dell’artista.
Origini (1935-1949)
Si trovano qui i” Motivi Dalmati”, le prime opere di Music, quando viveva nell’isola di Curzola e assisteva quotidianamente alle “migrazioni” di donne vestite di nero sul dorso di asinelli che andavano e tornavano dal mercato o piccoli paesaggi del carso. Asini o cavalli appoggiano appena sottilissime zampette su strati di terre crude. A due a due allontanano lenti, silenziosi; rarefatti in luce intimissima. Sono asinelli che a tratti sembrano fare branco poi mutano direzione e scompaiono.
Omini su cavalli rosa, viola o azzurri conservati negli occhi e nella memoria dell’infanzia insieme allo spirito della terra bruciata si intravede un oriente fatto di rimandi arcani.
Affiorano rilievi collinosi. Paesaggi scabri, estremi in poeticità. Obbediscono ad una necessità che si vuole intima e segreta: ” (…) Ritrovando il paesaggio della mia infanzia ho compreso fino a che punto questa fosse la mia terra. Questo paesaggio mi si è imposto e ho cercato di tradurlo. È diventato il mio tema fatale e quasi ossessivo”.
Atmosfere piene di luce proprie dei primi acquerelli di Venezia, incantate vedute di bragozzi e burchi, oscillanti in tratti d’acqua azzurra. Segni leggeri e trasparenze colorate per cattedrali come mosaici o come cristallerie di vetri settecenteschi vibranti dei colori della luce.
Il Viandante (metà anni ’90)
Zoran se ne intende di attraversamenti di confine: Stiria e Carinzia nell’infanzia, terre dalmate, carsiche, ventilazioni triestine, Vienna post imperiale, impressioni praghesi. Condensa e incorpora il transito nella figura del “Viandante”, presente qui in più versioni. Nero trasparente, nero velato. Nero lutto. A descrivere la lenta migrazione dell’orso dalla Stiria, giù in zone di confine. Con Ismail Kadarè, cantore degli altopiani aridi d’Albania. alla ricerca del limite ultimo di uno spazio, di un territorio, con i profeti a meditare presagi, anticipa le migrazioni attuali, nelle quali ciascun singolo sembra disorientarsi.
Venezia, ancora
“Ho cercato di trasmettere il profondo silenzio, l’atmosfera e la grandiosità dello spazio (…) ”.
Sono insiemi di gioielli colorati, di bagliori o poi di silenzi profondi adombrati di malinconia e mistero.” Interni di cattedrali”, nella” Basilica di San Marco”, luminescenti e fiabeschi.
Zoran si sentiva orgogliosamente partecipe alla fondazione di Venezia: “Una regione, la mia, un tempo coperta di querce, il cui legno è servito per fare le palafitte su cui è costruita Venezia. ….”.
Compare dopo gli anni ‘80 una Venezia meno luminosa, più bruna e ocra, Venezia ci appare ancora pervasa da bagliori, ma emergono dal “quasi buio”; corrosa da uno sguardo adorante anche mentre la immagina disgregarsi. Una Venezia spazzata dai venti, erosa dall’intemperie: antiromantica fino all’estinzione dei contorni , linea di fogli tracciati da un nero carbone. “Canale della Giudecca” decomposto in pastello grasso. L’accensione arancione del “Molino Stucky” immerso in nero inchiostro. “La Punta della Dogana” che emerge bianca, interpretata come mole neogotica, con ciminiere-insetto di una Marghera intravista.
Figure Grigie (fine anni ’90)
In posizione centrale nel percorso della mostra e con le opere sistemate su cavalletti da studio, le “Figure Grigie” costituiscono il fulcro nel processo che porta alla fine del corpo. Sono autoritratti su cui calano colate in grigio lavico, i tratti somatici si trasformano in “estreme figure” di fortissima intensità. Una tonalità grigia che instaura nuovi rapporti di forza all’interno della figura: stessa. Un grigio che vibra, ma è grigio lavico grigio-Carso. grigio incompiuto, ove galleggiano, lunghe braccia arrese, grandi mani che appoggiano alla tempia o si intrecciano sotto il mento, occhio vigili quasi rapaci, volti. Tutti sintomi di una vitalità residua. Figure deflagranti. Zone grigie come campi magnetici che irradiano, disfano, corrodono,inghiottono.
Spazio intenso (anni ’90)
Zoran assiste al progressivo cedimento del corpo e nelle “ultime figure”, gli autoritratti a figura piena degli anni Novanta, esprime il processo verso l’estinzione in perfetta solitudine. Quella stessa di quando era bambino, ai margini di un impero austro-ungarico che sfaldava i suoi confini. “Ho bisogno di questa solitudine” … e dipinge figure sedute, nude, assorte o semplicemente chine, le gambe accavallate, un piede nella mano. Avvolti da una spessa nebula di dolore e non più di stupore, profonda. Un corpo massiccio, imperioso, va verso il declino e non teme il racconto del suo resistere allo sgretolamento.
Soprattutto “L’anacoreta”, senza sguardo, Vigile ed estremo, come Cassandra. Disarmato e disponibile ad assecondare il proprio declino. Per procedere verso l’oltre. Lo affiancano una sequenza di nudi su carta: in piedi, di schiena. Argentei avanzano dal nulla, come sospinti dalle pieghe dei fogli di carta.
“Sono dovuto tornare a Dachau” (anni ’70).
Il ciclo, poderoso e ingiudicabile, ha nel titolo la fatalità di una condanna sempre rinnovabile: ”Noi non siamo gli Ultimi”. “…come in trance, mi attacco morbosamente a questi fogli di carta accecato dall’allucinante morbosità di questi campi di cadaveri … irresistibile necessità …per non farmi sfuggire questa grandiosa e tragica bellezza”. Un ossario siderale e luminescente. corpi colti nell’ultimo affannoso respiro prolungano nelle radici ramificate e avvizzite dei “Motivi vegetali”. Ma Le radici diventano marcescenti e fradice, inglobano, in personalissima poetica la sparizione dal mondo degli uomini.
In prigionia aveva tracciato i primi disegni, solo trenta anni dopo il ritorno li trasforma in opere sistematiche. Tutte conducono tra l’angoscia alla domanda” perché’? Come è stato possibile? E si risponde, ” non ultimi” e ricorda le larve di San Saba e gli scheletri di Dachau immobili, accatastati uno sopra l’altro , messaggi premonitori, emblemi di una condanna sempre possibile, di un rischio sempre rinnovabile
. Music ha disegnato le vittime dell’Olocausto e dopo trent’anni afferma ”ancora oggi mi accompagnano gli occhi dei moribondi come centinaia di scintille pungenti che mi seguivano mentre mi percorrevo strada, scavalcandoli. Occhi luccicanti che in silenzio chiedevano aiuto a uno che poteva ancora camminare”. Immagini indelebili nella memoria le vediamo tradotte ora in pittura con tratti crudi ed essenziali.
Variazioni in Ida e Autoritratto
Music si ritrae da sempre. I colori sono quelli del deserto, pochissimi. Indizio di un’attitudine interiore: ”(…) Ho iniziato ad usarli quando ho creduto di incontrare me stesso: vorrei che mostrassero ciò che è sotto la mia pelle. Vorrei che avessero forza e una tensione che non è solo di superficie”.
“È ciò che io ho dentro, e che ho cercato di tirare fuori, magari con severità (…) dipingo solo autoritratti e non faccio ritratti di altri perché non li conosco”. Vado verso il deserto e la sua essenzialità” dice. Qualcuno l’ha raccontato come un ossessivo cammino di mineralizzazione della figura…” Gli autoritratti bizantini dell’inizio indicano ancora la compattezza della figura che poi si decompone, fino ad sciogliere nella lunga vecchiaia le fatiche del corpo, il cedimento alla forza di gravità terrestre. Allo stesso modo in cui è affascinato dalle corrosioni minerarie di un suolo desertico così assiste allo sgretolamento graduale del corpo facendo intravedere che, ” Quando tutto sembra cedere, e la figura lotta con la tenebra che la inghiotte, c’è solo “il profondo”.”
La moglie Ida è l’unico essere umano a comparire sulle tele oltre a se stesso. Connessa all’essenza di una Venezia bizantina che ama. “Ida” compare una prima volta nel 1947, ma seguiranno moltissimi ritratti. Il suo ovale stilizzato, bidimensionale come un’icona moderna. Le sue capigliature di fuoco, sagome in luce che affiorano da fondali scuri.
Ida gli è prossima in diversi ritratti , o è sola con le mani giunte e le dita intrecciate o accanto a lui per assecondarlo. Raccoglie anche i bisbigli. La sua capigliatura esalta il volto più chiaro, lo avvolge in un alone di luce .Lo sguardo immobile, gli occhi spalancati,distanti, assenti di Zoran, col volto più scuro, fissano Ida con insistenza. Come a carpirne i segreti. E’ coinvolgente!
Spesso in piedi, nell’atto di chi ritrae, mentre Ida si allunga su soffici dormeuse; semisdraiata. Guarda altrove. Immersa in un’aurea lieve, dorata, Zoran protende il braccio, lo allunga a dismisura fino quasi a toccarla.
Si giunge così a
Doppio ritratto (1983–2001)
L’ultimo nucleo tematico riguarda prima i disegni preparatori poi gli oli che dicono l’approssimarsi di due figure nello spazio pittorico fino a diventare una cosa unica: in un estenuante approssimarsi dii posture, slittamenti e traiettorie di sguardi. Zoran reinventa nuova accoglienza alle due figure fino a farle coincidere. Le due figure, disegno per disegno tentano, e temono, un avvicinamento. Lei emerge chiara dall’oscuro, lui sprofonda nella tenebra proteso solo cercare di fermarne l’immagine. Inseguimento strenuo , complice la pittura, rende il loro amalgamarsi, in un’attrazione vigorosa, quasi elettrizzante.
Una mostra ricca di fascino che invita a riflettere, grazie alle atmosfere create da Music con le sue “ vibrazioni estreme”. E a chi gli domandava cosa ci fosse al di là della superficie delle sue tele Music rivelava: “Oltre c’è il profondo. Il luogo dove non si spiegano le cose, una specie di nebbia dov’è difficile muoversi”. Venezia è l’ideale per immergersi nelle brume invernali e meditare sul senso della vita e in essa del dolore e dell’affettività. Mentre le foto ci rimandano una figura alta, magra, spontanea, intrigante come un ussaro della cavalleria in abiti borghesi ci dispiace non poterlo salutare di persona per ringraziarlo .