Pubblichiamo la relazione che Fabio de Propris, docente di liceo a Roma, ha tenuto al Congresso ADI (italianisti) a Torino il 16 settembre scorso
Quarant’anni di italiano scritto tra i banchi di scuola.
Da Don Milani ad oggi [1]
“Requisito essenziale per giudicare non è nè un’intelligenza altamente sviluppata, nè una raffinata conoscenza di questioni morali, ma più semplicemente l’ abitudine di vivere esplicitamente con se stessi : e cioè l’abitudine a condurre tra se’ e se’ quel dialogo silenzioso che dal tempo di Socrate e di Platone chiamiamo solitamente pensiero“
Hanna Arendt [2]
Oggetto di questa relazione è lo scrittore italiano che è anche insegnante e in uno o più dei suoi libri tratta del mondo della scuola.
Il doppio statuto di scrittore e di insegnante crea una situazione limite, paragonabile a uno specchio che rifletta un altro specchio in una stanza dove non ci siano altro che questi due specchi posti l’uno di fronte all’altro. Partendo dall’assioma che qualunque testo letterario (dal saggio alla barzelletta più triviale) ha un fine parenetico, lo scrittore che parla della propria esperienza di insegnante da un lato compie un gesto ovvio, poiché la motivazione parenetica che lo ha spinto a insegnare è assai simile a quella che lo spinge a raccontare una storia, dall’altro si pone di fronte al proprio inguardabile se stesso, poiché ricavare la morale dal racconto del tentativo di trasmettere una morale è un’attività liminare che sconfina con l’irraccontabile. Perché dunque lo scrittore possa raccontare la sua esperienza di insegnante, deve necessariamente seguire alcune strutture dell’arte del racconto, quali ad esempio lo schema “dalle stalle alle stelle”, o “la rinascita”[3]. Ciò gli permette sicuramente di tradurre la sua esperienza in racconto, spesso con venature saggistiche, ma al prezzo di trasformare la quotidiana esperienza scolastica, magari trentennale, in qualcosa di inattingibile, come il noumeno kantiano.
Se i due schemi citati possono strutturare racconti a lieto fine, offrono anche la possibilità di un’interpretazione ironica e servire a raccontare una sconfitta. Nella letteratura italiana degli ultimi quarant’anni questa seconda modalità è prevalente. Possiamo incontrarla anche lungo tutto il Novecento e anche prima, a testimonianza del fatto che la scuola che precedette il ’68, nella traduzione narrativa dello scrittore-insegnante, non era così diversa nei risultati da quella che l’ha seguito.
Che insegnare e fallire nell’insegnamento siano due aspetti di un unico fenomeno per gli scrittori-insegnanti delle ultime due generazioni è una conclusione largamente condivisa. Il racconto del fallimento della “rinascita” ha innanzitutto una motivazione tutta interna all’atto del raccontare: non si può dire l’indicibile e l’aver provato sfocia necessariamente in una sconfitta. Un secondo motivo è legato alla natura stessa dell’insegnare, che è un’attività lunga, i cui risultati possono vedersi a distanza di anni (e non è detto che li veda l’insegnante), o non vedersi se non l’ultimo giorno di vita dello studente, poiché apprendere è un’attività che si conclude solo con la morte. Tutto ciò si confonde con la condizione umana, la sua insufficienza ontologica, “il legno storto dell’umanità”. Il lieto fine in questo campo è dunque fuori luogo per natura. Esistono poi motivazioni storiche e nazionali, legate alla nobile scommessa dei Costituenti della Repubblica italiana (1946-47) di una scuola “aperta a tutti”, con “otto anni” di istruzione “obbligatoria e gratuita” (art. 34 Cost. it., con tagli), che negli anni Sessanta del Novecento ha portato alla scuola media “di massa”. Le classi si riempirono, sembra, di alunni non “capaci e meritevoli”. Il numero stesso degli insegnanti nell’Italia repubblicana aumentò e neanche loro furono tutti impeccabili. Se il discorso sulla scuola esce fuori dal dettato della Costituzione, delle leggi, dei decreti o delle circolari ministeriali per strutturarsi come racconto dell’insegnante, si presenta spontaneo il desiderio di raccontare l’altra faccia della medaglia, la dura realtà di una pratica scolastica che fallisce il suo obiettivo per mancanza di un sostrato culturale familiare solido e di fondi ministeriali, per la distanza tra buoni propositi e forze effettive, per la rivalità tra scuola statale e scuola privata religiosa o laica e, più in generale, per lo scollamento tra come dovrebbe essere il mondo e come è.
Lettera a una professoressa (1967), firmato dalla Scuola di Barbiana, diretta da don Lorenzo Milani, è invece un libro che sfugge a queste coordinate. Non meraviglia che sia diventato un caposaldo nella storia della scuola e, direi, anche della storia italiana in genere. Qui lo schema narrativo “dalle stalle alle stelle” è innervato dalla vicenda degli studenti respinti dalla scuola che, con la guida del Priore, si appropriano eroicamente di una cultura di cui stabiliscono autonomamente i contenuti partendo dai valori della civiltà contadina e operaia di cui fanno parte. La straordinaria storia dei ragazzi di Barbiana, tanto reale nei particolari, quanto epica nella struttura (fa sognare, induce l’identificazione con l’eroe, richiama grandiose speranze evangeliche di riscatto) non è però una vicenda che abbia al centro l’insegnante[4]. La professoressa del titolo è un muto obiettivo polemico. Don Milani, il vero maestro, si nasconde dietro la voce dei suoi ragazzi figli di contadini, dà loro forza, si fonde insieme a loro in soggetto collettivo. Tuttavia, non è sua la storia che racconta. Il nostro eroe è “Gianni”, il ragazzino povero, cui è contrapposto “Pierino del dottore”, lo studente borghese favorito dalla società in tutti i modi, anche al di là dei suoi meriti e delle sue capacità, quasi una riedizione novecentesca del marchesino Eufemio[5] immortalato da Giuseppe Gioacchino Belli in un suo sonetto italiano del 1843. Addirittura, si può trovare un ritratto di don Milani da bambino proprio nel disprezzabile Pierino (lo sostiene Sandra Gesualdi nella sua presentazione all’edizione 2007 del libro, a pag. XI). Forse è arrivata l’ora di considerare Lettera a una professoressa anche un caposaldo della Letteratura italiana. Un testo cioè che ha inciso nella storia del nostro Paese proprio in virtù delle capacità narrative di chi l’ha scritto. Se ha un senso parlare di “narrazione” della realtà nel senso dato alla parola dal pedagogista Jerome Bruner e poi ripreso in sede non solo filosofica, ma anche politica, allora è il caso di dire che la scuola di Barbiana ha cambiato la storia italiana perché ha saputo “narrare”, raccontare una storia a un pubblico che poi – come ha voluto e potuto – vi ha trovato uno stimolo per il suo agire. Forse era un pubblico di Pierini che sognava di essere Gianni, ma questo fa capire la forza della narrazione (se è possibile un paragone, milioni di bambini “babbani” hanno letto i romanzi di J. R. Rowling sognando di essere il mago Henry Potter).
La magia della narrazione di Lettera un professoressa però non si è ripetuta.
Ora siamo qui ad aspettare una risposta. Ci sarà bene in qualche istituto magistrale qualcuno che ci scriverà:
“Cari ragazzi,
non tutti i professori sono come quella signora. Non siate razzisti anche voi.
Anche se non sono d’accordo su tutto quello che dite, so che la nostra scuola non va. Solo una scuola perfetta può permettersi di rifiutare la gente nuova e le culture diverse. E la scuola perfetta non esiste. Non lo è né la nostra né la vostra.
Comunque quelli di voi che vogliono essere maestri venite a dar gli esami quaggiù. Ho un gruppo di colleghi pronti a chiudere due occhi per voi.
A pedagogia vi chiederemo solo di Gianni. A italiano di raccontarci come avete fatto a scrivere questa bella lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete dei sormenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie”.
Aspettiamo questa lettera. Abbiamo fiducia che arriverà.
Il nostro indirizzo è: Scuola di Barbiana Vicchio Mugello (Firenze).”
(Lettera a una professoressa, pp. 139-40)
Il tono fiducioso delle parole finali della Lettera (cui seguiva una Parte Terza di documentazione) non ha avuto eredi di rilievo. Dal 1967 a oggi ha prevalso nello scrittore-insegnante il tono pensoso dello sconfitto, talvolta autoironico, talvolta comico-amaro, come, ad esempio, nel recentissimo romanzo autobiografico di Silvia Dai Pra’, Quelli che però è lo stesso, (Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 160), storia di un’insegnante trentenne in precario servizio presso un istituto professionale di Ostia.
La grandiosità del sogno si è scontrata con le piccinerie della realtà. Per ridurre la situazione a una sola frase, possiamo dire che il nuovo insegnante sognava di essere un Gianni passato dall’altra parte dell’aula a rinnovare l’umanità, ma si è ritrovato a essere la professoressa che bocciava Gianni. È una vicenda di “rinascita” finita male. Una storia triste, ma che deve pure essere raccontata.[6]
L’Italia degli anni Settanta è ricca di insegnanti, che costituiscono l’intellettuale-massa. Una persona che ha studiato spesso a livelli assai alti per poi ritrovarsi in realtà didattiche difficili, in cui lo studente proviene in larga parte da famiglie culturalmente deprivate in cui il fascismo aveva rinforzato l’atavico disprezzo per la cultura (il “culturame” di cui parlò Mario Scelba nel 1949) e il berlusconismo comincia a lavorare per rifinire l’opera (il “culturame” di cui ha parlato Renato Brunetta nel 2009).
L’intellettuale-massa che proviene dalle classi più umili e che prima della Repubblica molto difficilmente avrebbe potuto studiare (se non in seminario), si trova ora a parlare da una cattedra per istruire studenti-massa. Che vi sia un abbassamento generale del livello di istruzione sembrerebbe, ed è sembrato, un’ovvietà. Ma la scuola ha sempre avuto, almeno nelle narrazioni, tratti assai simili. Certo, da don Milani in poi, le voci si fanno più numerose.
Così ad esempio ricorda Domenico Starnone nel brano datato 6 ottobre 1985 scritto per il quotidiano “Il Manifesto” e poi raccolto nel fortunato libro Ex cattedra (Milano, Feltrinelli, 1989):
“… nella scuola di San Chirico Raparo, molto al di là di Eboli […] C’ero arrivato in un mattino gelato del 1969, dicembre, dopo molte ore di treno nella notte e poi altre ore di viaggio all’alba, su una corriera sgangherata e gonfia di fiati caldi. Nel dormiveglia pensavo: e se faccio una cattiva impressione? e se mi impapero? e se dico: zitto tu? Avevo smesso da poco d’essere ragazzo e perciò sapevo come sono i ragazzi: malvagi. Ma avevo letto don Milani e progettavo di essere non come la professoressa della Lettera, bensì come lui: però prete no. Solo rivoluzionario ed esperto in nomi degli alberi (mai dire: sali su quell’albero: sempre determinare: sali su quel ciliegio), in modo da fare bella figura con i miei allievi di campagna.
Quando sono entrato per la prima volta in classe, un’aula dell’Ottocento, stufa a legna, fumo perché il camino non tirava bene, caldo asfissiante in antitesi col vento gelido che mi investiva se in sudore correvo su per la gradinata all’aperto che portava in un’altra classe – quando sono entrato, ti dicevo – ho detto al nostro valoroso delegato Cgil a cui stavo raccontando la mia faticosa carriera, – un teppistello è uscito dal banco senza chiedermi il permesso. E io gli ho intimato: fermo là, come ti chiami. Lui s’è fermato e “Cataldi” ha detto indicando la legna in un angolo e poi: “il ciocco”. Per farmi capire che il suo compito era alimentare la stufa. Allora io ho concesso: fa pure. E quindi “Che legna?” ho chiesto col tono di chi dice: vediamo se lo sai. Lui mi ha interrogato così: “?”. Io in gran tensione ho precisato: di che albero. Il ragazzo mi ha risposto: che ne so. Allora l’ho fissato a lungo terrorizzandolo senza intenzione. Pensavo solo: se distolgo lo sguardo mi chiede: “Che albero è?” e nemmeno io lo so. Ma il ragazzo invece mi ha domandato: “Chi ha messo la bomba a Milano?”. Io ci ho pensato e nemmeno quello sapevo. Ho risposto: “Vediamo l’importanza delle tombe per gli antichi egizi”. “È stato lui” allora ha sussurrato Cataldi agli altri.
Che non ero colpevole – ha rassicurato il nostro delegato – se ne accorsero qualche tempo dopo. E, a pensarci, è l’unica cosa che s’è saputa su quella strage.”
(D. Starnone, Ex cattedra, pp. 20-21)
Il tono autoironico e a tratti senz’altro comico del primo libro che Starnone dedica alla scuola, poi efficacemente travasato nel film La scuola dal regista Daniele Luchetti (1995), cede il passo in Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso (Milano, Feltrinelli, 1995) a una narrazione più riflessiva, autobiografica e addolorata. Come è ovvio per la logica del racconto, le parti più affascinanti sono quelle in cui Starnone rievoca la sua infanzia e la sua adolescenza di studente: in cui cioè lo schema “dalle stalle alle stelle” funziona. E le “stelle” sono le ripetizioni private:
“Temevo che si risapesse. Pensavo ai miei insegnanti che avrebbero detto: “Lezioni private quello lì? Ma se le faccia dare, le lezioni private!”. Temevo anche che i genitori dei miei alunni, convocati dagli insegnanti dei figli, si sentissero dire: “Chi è l’imbecille che dà ripetizioni a questo povero ragazzo?”. Andavo a casa dei miei allievi sempre con un po’ di batticuore.
(D. Starnone, Solo se interrogato, pp. 76-77)
Qui però interessa rilevare il senso generale del libro, che è poi quello tipico della narrazione dello scrittore-insegnante dell’ultima generazione: il racconto del passaggio dall’uguale all’uguale, “dalle stalle alle stalle”.
Starnone passa in rassegna testi proto-novecenteschi che sulla scuola non fanno che ripetere un giudizio severo, di sostanziale insufficienza:
o qualche pagina dal De Amicis di Il romanzo di un maestro (1890)
“Ieri ho leggiucchiato vecchi testi. L’ho fatto pensando a mia nonna, che ci teneva molto alla mia buona riuscita scolastica […] Non so per quali canali, aveva acquisito una delle critiche ricorrenti rivolte alla scuola del Novecento. “Adesso”, si diceva, “si impara di meno” […].
Un rimpianto immotivato, mi sono confermato rileggendomi […] Poi sono passato alle Memorie di un vecchio professore di Michele Lessona […] E anche lì il quadro, malgrado il garbo, non mi è parso bello: ingiustizie dovute a valutazioni umorali fondate sul pregiudizio; trucchetti per barare agli esami, raccomandazioni; ignoranza di esaminatori ed esaminati. […]”
(D. Starnone, op. cit., pp. 46-47)
Starnone prosegue citando le novelle scolastiche Socrate moderno (1908) di Massimo Bontempelli, il pamphlet antiprogressista Chiudiamo le scuole (1914) di Giovanni Papini (“ le scuole servono solo a deprimere la creatività dei geni e a fabbricare ‘cretini di stato’ ”, p. 48) e La cultura italiana di Giuseppe Prezzolini (1927), sostenuti nel loro pessimismo anche da due testi manualistici, Il manuale del perfetto professore di Dino Provenzal (1921) e Gli insegnanti bocciati di Evaristo breccia (1957): tutti testi che retrodatano di molto le critiche che si rivolgono alla scuola italiana “dopo il ’68” da parte dei nostalgici del tempo che non fu mai.
Cito a questo proposito altri due testi “pessimisti” che precedono il fatidico anno: Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi (Torino, Einaudi, 1962 – ma terminato già nel 1960 e trasposto al cinema da Elio Petri nel 1963, protagonista Alberto Sordi) e Le parrocchie di Regalpetra di Leonardo Sciascia (Bari, Laterza, 1956), maestro elementare nella natia Racalmuto dal 1949 al 1957.
Viene da concludere che l’insegnante italiano, narrativamente parlando, è una figura che, prima o dopo il 1968, davanti a sé non ha spazio per svilupparsi, per rinascere o tornare a rivedere le stelle. Il suo modello è il Socrate amato da Hannah Arendt: sogna di dialogare con lo studente, aiutarlo a pensare e accompagnarlo in un processo di liberazione, di rinascita, strapparlo alla banalità del male. Ma non ogni dialogo dell’ennesimo piccolo Socrate con ciascuno dei suoi casuali discepoli raggiunge l’obiettivo. Inoltre il dialogo quasi mai è a due, perché l’interlocutore del nostro Socrate decaduto è una classe di studenti. La stessa altezza del suo modello sembra la causa dell’impossibilità di ripeterlo. L’insegnante finisce così per interpretare prima la maschera del filosofo cinico di strada che applica i metodi della diatriba davanti al pubblico distratto dei passanti, cioè gli studenti, e poi per vendicarsi amaramente raccontando sulla pagina i suoi fallimenti professionali, l’incompetenza dei superiori e dei colleghi più anziani, o l’ignoranza irredimibile dei discepoli ridotti a caricatura: lo studente-massa che non capisce le parole, non studia, ma scrive “io speriamo che me la cavo”. Invece che Socrate, l’insegnante passa a incarnare il ragionier Ugo Fantozzi, il capro espiatorio che nasconde in sé un carnefice fallito, il sognatore che scopre di vivere in un abisso di ignoranza e, dapprima con orrore, poi con rassegnazione, finisce per starci quasi comodo. Ma l’insegnante-Fantozzi è soprattutto personaggio narrato da altri. Quando l’insegnante scrive di sé, prevale lo schema del Socrate decaduto.
Un ottimo esempio è fornito dal recente pamphlet di Paola Mastrocola Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (Parma, Guanda, 2011, pp. 271). Mi permetto di riportare un ampio stralcio della mia recensione al libro pubblicata dall’inserto settimanale Alias (allegato a Il Manifesto) il 12 marzo 2011.
“[L’insegnante di oggi] è nella situazione del medico ospedaliero, dell’operaio della Omsa o della Fiat, del giornalista (del Manifesto, ma non solo) e di molte altre figure professionali. In Togliamo il disturbo, il grido di dolore della docente incompresa si fa di conseguenza atto d’accusa verso la decadenza culturale dell’Occidente, riprendendo le fila di un discorso che Lucio Russo aveva con grande chiarezza e coraggio delineato in Segmenti e bastoncini già nel 1998. La scuola, denunciava Russo, sta abbandonando il pensiero astratto (p. es. il concetto di segmento) perché lontano dalla realtà immediatamente tangibile e sta inseguendo la chimera del pensiero concreto (cioè il bastoncino). Dietro l’apparente democratizzazione di questo insegnamento basato sulle cose si nascondeva la tragedia della deindustrializzazione del Paese, che portava con sé la necessità di cambiare il paradigma educativo. Il pensiero astratto serve a formare il fisico, l’ingegnere, lo scienziato. L’esempio offerto da Lucio Russo era quello del fisico Federico Faggin: perito industriale nel 1960, laureato in fisica nel 1965 a Padova, emigrò nel 1968 negli USA dove nel 1971 inventò, insieme a due colleghi, il microprocessore. Nel frattempo, l’Italia rimaneva sempre più indietro nel campo della progettazione e della produzione informatica, fino a esserne completamente fuori. Destinata a diventare un paese di consumatori, la sua scuola doveva abbandonare il segmento per concentrarsi sul bastoncino. Di qui, allo studente-massa ritratto dalla Mastrocola, che non studia, ma gioca a un videogioco di cui ignora l’impalcatura teorica e ingegneristica, il passo è breve. Inevitabilmente parlare della scuola porta subito a parlare di altro, ovvero della società che crea e alimenta quella scuola. L’autrice, che descrive con notevole abilità linguistica e letteraria la società con cui viene a contatto, ovvero gli studenti del liceo scientifico e i loro genitori, sa però concentrarsi su obiettivi circoscritti. Vorrebbe cioè poter continuare a trasmettere il codice letterario e la cultura necessaria a comprendere Tasso, Dante, Petrarca o Irène Némirovsky (a leggere Alias, insomma). I suoi studenti, invece, non solo non leggono, ma neanche vanno più al cinema, perché non riescono a stare seduti due ore. I genitori (votano tutti Berlusconi? hanno tutti la scheda Mediaset premium per vedere il calcio e il cinema sul televisore gigante?) li approvano. Il Paese è sull’orlo della catastrofe. Italiani, svegliatevi. L’efficacia del pamphlet sta, a mio avviso, nella sua anima romanzesca. L’autrice ha costruito un personaggio, la professoressa torinese di mezz’età, e l’ha lasciata parlare. Le ha donato pensieri, manie, idee e fantasie che sono di certo le sue, ma al tempo stesso costituiscono un profilo letterario che in un’ottica storico-geografica, potremmo definire novecentesco-piemontese. La voce del pamphlet è quella di una docente torinese nata alla metà del XX desiderosa di trasmettere alle nuove generazioni una tradizione di studi solidi e giustamente noiosi che caratterizza il Piemonte (l’anglo-piemontese Carlo Dionisotti, il germanista Cesare Cases, il linguista Gianluigi Beccaria, la redazione dell’Einaudi, o della rivista “L’indice”, con la sua operosità classificatoria degna di un erudito settecentesco), coniugata però con un esercizio altrettanto solido della fantasia (Italo Calvino soprattutto, alla ricerca dell’esattezza e della leggerezza, il professor Eco, ma anche Fenoglio e Pavese, con il loro affannarsi sull’inglese e la passione per la terra) e il rispetto per il lavoro manuale fatto come si deve (penso al Primo Levi della Chiave a stella e del Sistema periodico), se non, addirittura, l’amore per la libera impresa di Luigi Einaudi.”
Il discorso di Paola Mastrocola è critico nei confronti di don Milani e di Gianni Rodari, anzi, più precisamente del “donmilanismo” (pp. 104-15), del “rodarismo” (pp. 116-23) e della “pedagogia democratica” (pp. 124-30), ma si inserisce in ogni caso nel filone parenetico della letteratura dello scrittore-insegnante, nella nobilissima fattispecie della vox clamantis in deserto.
Lo scrittore-insegnante assai difficilmente esce fuori dal filone. E se pensiamo ai programmi scolastici di italiano – dalle invettive dantesche nella Commedia, alla canzone petrarchesca Italia mia, benché ’l parlar sia indarno (R. V. F. CXXVIII), alla lezione machiavelliana del Principe ripresa dal Foscolo dei Sepolcri, al magistero politico-religioso di Manzoni, alle lezioni laiche di Leopardi, di Primo Levi, di Italo Calvino, fino agli istruttivi scandali di Pasolini – viene addirittura da concludere che la lezione della scuola si riflette su se stessa, come l’immagine dei due specchi che ho citato all’inizio. Se invece desse più spazio alla narratività, al semplice raccontare storie, insegnando allo studente come raccontarsi e come raccontare il mondo, forse l’insegnante diventerebbe davvero il Socrate che sogna di essere. Ma il compito è improbo.
Spiccano nel campo che stiamo indagando le pagine di Sandro Onofri raccolte in Registro di classe (Torino, Einaudi, 2000, pp. 100), un libro in cui l’autoironia e la teatralizzazione del sé cedono il posto alla registrazione accorta dello stato delle cose, dell’interiorità della voce narrante e delle ragioni degli altri. Il sogno di incarnare Socrate per Onofri si era fatto assai flebile, perché “la cultura del soldo è dominante” (p. 98) e nessuno sta ad ascoltare un professore che non è diventato ricco. Tuttavia l’autore aveva la sfacciataggine di esclamare, felice: “Esiste un mestiere più bello del mio?” (p.32).
La prospettiva autoriflessiva rende Registro di classe un libro narrativamente valido e la morte dell’autore a stesura appena conclusa gli dona un’aura di testamento che ne accresce il valore. Tuttavia il culmine è costituito da uno dei testi in appendice, Storia di un condannato, in cui Onofri racconta la vicenda di un ragazzo di Ladispoli (cinquanta chilometri da Roma, su uno dei mari più inquinati d’Italia), autore di un omicidio di un coetaneo argentino, un assassinio non premeditato, frutto di un’educazione assente, di una violenza come linguaggio quotidiano e di una sera “nata male”. Il professor Onofri si limita a dare voce al condannato Massimiliano Malandrucco, che è andato a incontrare a casa. Emerge la difficoltà di parlare, di spiegarsi le cose: il fallimento di un progetto educativo anche minimo.
“Adesso lui lo sa che qualcosa ha sbagliato, che quella fortezza creatasi attorno, fatta da pochi amici fidati e spiccicati a lui, di poche e feroci regole di vita, e guai a chi sgarra, e una lealtà irriducibile e incarognita, quella fortezza doveva avere qualche falla. Lo sa che deve rivedere tutto di sé, adesso, ma è difficile cominciare. Gli manca la lucidità, e anche le parole. Quando prova a spiegare, c’è quel groviglio di idee e di rabbie che gli si blocca in qualche parte tra lo stomaco e la lingua, e finisce con un sospiro e una specie di risata. È da quel riso storto che si capisce l’angoscia. Anche se poi le parole, poche e tutte pesanti, stritolano i pensieri, escono a pezzetti. Sono nervoso, dice Massimiliano. Lo sono sempre stato. È il boato. Partito da chissà quale esplosione.”
(S. Onofri, Registro di classe, p. 96)
Si respira l’aria dei romanzi di Walter Siti (per esempio, Il contagio): lo stesso sottoproletariato di periferia romana, lo stesso sgomento del professore che non riesce a insegnare niente a nessuno, perché i suoi valori sono tutti fuori corso. Rispetto a Siti, pasolinianamente affascinato dai ragazzi di periferia, in Onofri c’è più sobrietà di mezzi espressivi, meno bravura letteraria e – oserei dire – maggior efficacia.
La scuola allora sembra diventare raccontabile quando la scuola non c’è. Professori come Eraldo Affinati che hanno scelto di insegnare in situazioni difficili, nelle carceri, tra gli orfani della Città dei ragazzi (si veda il suo libro omonimo La città dei ragazzi), agli immigrati (Italiani anche noi. Corso di italiano per stranieri. Il libro della scuola Penny Wirton), possono raccontare la propria esperienza come una rinascita. Oppure (come in Campo del sangue) possono raccontare efficacemente esperienze extrascolastiche e dunque iperscolastiche, come la visita (previo viaggio a piedi) verso ciò che resta del campo di sterminio di Auschwitz, divenuta dopo il libro di Affinati un’attività didattica di molte scuole italiane.
L’insegnante-Fantozzi, che in realtà è immortale come lo studente-marchesino Eufemio, sembrerebbe destinato a scomparire. Starnone ci avvertiva già nel 1995:
“L’altroieri ho chiesto al collega Mario Guccia, cinquantaquattro anni, se al liceo aveva già in mente quale lavoro avrebbe voluto fare da grande. È un uomo interessante, Guccia. Usa tutti i ritagli di tempo per studiare […].
M. G. […] Una volta che ho studiato il fordismo, mi è venuto in mente che la scolarizzazione di massa era stata favorita soprattutto dall’ingegner Ford. Scomponendo le mansioni, aveva annullato il bisogno di apprendere un mestiere e aveva reso superfluo, in prospettiva, il lavoro minorile. In compenso aveva ridotto a bestiole gli adulti. Non è stupefacente questo processo che libera i bambini delle classi subalterne a patto di rimbecillirne i genitori?
D. S. Tu dici che è andata così?
M. G. Mah, il problema è capire cosa prepara per la scolarizzazione la società che ha messo in soffitta Ford. Ho letto che il lavoro come l’abbiamo vissuto e immaginato sarà tutto fagocitato da nodi e snodi telematici. Non usciremo di casa se non per sgranchirci un po’ le gambe. Lavoreremo nei nostri appartamenti, una sorta di grandioso ritorno del lavoro a domicilio. […] Vivremo nella virtualità. Esploreremo il cyberspazio correndo dietro al mouse. Topolino, topolino.
D. S. Con quale effetto sull’istruzione di massa?
M. G. I giovani studieranno restando a letto. Niente più ‘andare a scuola’. Avranno accesso a una quantità sterminata di informazioni. Interrogheranno e saranno interrogati dalle macchine. Altro che insegnanti, altro che i libri di testo. La scuola come la facciamo oggi sparirà. Secondo me, spariremo anche noi.
D. S. Noi insegnanti?
M. G. Sì. Finiremo nell’elenco dei mestieri in estinzione. Così come siamo, abbiamo il tempo contato. Meglio.
(D. Starnone, Solo se interrogato, pp. 70-72)
Di qui a Il sopravvissuto di Antonio Scurati (Milano, Bompiani, 2005, vincitore del premio Campiello 2005), che prende le mosse dalla strage di sette squallidi professori durante l’esame di Stato a opera dello studente Vitaliano Caccia, da cui si salva solo la voce narrante, il professor Marescalchi (suo sotterraneo ispiratore), il passo è breve.
Ma non c’è un unico paradigma narrativo per lo scrittore-insegnante. Quello fin qui delineato è solo uno dei paradigmi possibili, formatosi – oltre che sui principi generali dell’arte del racconto – anche sulle vicende storiche italiane.
Vorrei perciò concludere con alcuni cenni sulla cultura turca contemporanea per esaminare un paradigma narrativo diverso, prendendo spunto dal romanzo Un inverno ad Hakkâri pubblicato a Istanbul nel 1977 da Ferit Edgü (tit. orig.: Hakkâri’de bir mevsim, trad. it. di Peter Kurtböke e Marta Alessandri, Catania, De Martinis & C. Editori, 1995; nuova edizione a cura di Carlo Guarrera, Messina, Mesogea, 2009). Come accade spesso nel contesto culturale turco, l’insegnante è una figura sostanzialmente eroica, poiché è il rappresentante dei valori laici, statalistici e al tempo stesso rivoluzionari di Mustafa Kemal Atatürk (1888-1938). Il suo ruolo è quello di diffondere questi valori non solo nella zona ‘europea’ della Turchia, o in quella che si affaccia sul mare Egeo (l’antica Asia minore), ma anche e soprattutto nell’entroterra dell’Anatolia, nel sud-est del Paese, le zone montuose in cui si parla il curdo e l’analfabetismo è alto. L’insegnante di turco che viene mandato a lavorare lì si descrive dunque come una sorta di missionario laico, di eroe della cultura che all’inizio può venire accolto con diffidenza, o non capire la (sotto)cultura dei suoi alunni e dei loro genitori, ma che intimamente sa di essere dalla parte della giustizia, della libertà, dell’illuminismo, anche se non è necessariamente d’accordo col governo in carica (anche se quel governo, per esempio, lo ha punito per le sue idee ‘di sinistra’ spedendolo dalla Città affacciata sul Bosforo in uno sperduto villaggio ai confini dell’Iran). Così pensa tra sé il maestro voce narrante di Un inverno ad Hakkâri:
“Quando penso alla mia situazione, dico tra me e me “ci sono stati dei sopravvissuti più sfortunati di te”. Tutti i marinai conoscono nomi e avventure di molti di loro. […] Io, almeno, sono capitato tra la gente. Non capisco la lingua che parla, le condizioni naturali e sociali non sono quelle a cui sono abituato. Ma non sono su un’isola deserta. Non sono stato chiuso in una segreta. Non subisco torture per un crimine che non ho commesso. Non mi obbligano a fare un lavoro contro la mia volontà. […] Ho una classe. Ho degli allievi. Non sono sul mare, non sono il capitano. Sono l’insegnante e lo studente. Dunque, ci sono delle cose che dovrei imparare. Come tutti gli esseri umani. Non è felicità anche questa?”
(Ferit Edgü, Un inverno ad Hakkâri, pp. 94-95)
Gli accenti non sono poi tanto diversi da quelli di Sandro Onofri. Ma il maestro turco ha dovuto assistere alla morte dei suoi alunni curdi per un’epidemia e ha raccolto la confessione di un assassino che diventa suo amico. Ha conosciuto la vita dura di persone che non hanno dimestichezza con i libri, anzi li guardano con diffidenza e talvolta li bruciano. Viene da pensare a un Carlo Levi andato al confino ancora più lontano, dove non si parla un dialetto, ma una lingua di un altro ceppo. E così conclude:
“Nel tempo che sono stato qui ho cercato di insegnarvi molte cose, per esempio che il mondo gira, come fanno a volare gli aerei, come fanno a navigare le navi, come si formano le montagne, come si riproducono gli uomini, come si mangia, come si assimila il cibo, come si caga, e come si muore. Avete imparato tutto questo, cari ragazzi, non è vero? E io, prima di partire, vi chiedo un piacere: dimenticate tutto quello che vi ho insegnato […] Molte di quelle cose che vi ho detto quest’inverno erano bugie. Ma quella che vi dirò adesso è la verità. Ragazzi miei, vivere senza morire all’età di tre mesi per malattie sconosciute, è possibile. La lebbra, il tracoma, non sono il destino. Niente è destino, ragazzi. Ecco, tutto qui. La verità che vi dovevo dire è questa. Forza, su, la lezione è finita, via.”
(Ferit Edgü, op. cit., pp. 207-08)
Sono persuaso che molti insegnanti italiani, senza affatto sperare di dover affrontare situazioni così estreme, hanno lo stesso spirito e, forse non trovando un vero equivalente nel protagonista di un romanzo italiano contemporaneo, di nascosto (addirittura a se stessi), fanno gli eroi tutti i giorni, in classe, tra un suono della campanella e l’altra, in attesa della macchina-Golia che li sostituirà.
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Bibliografia
Affinati, Eraldo, Campo del sangue, Milano, Mondadori, 1997; La città dei ragazzi, Milano, Mondadori, 2008, pp. 213; Id. (con Anna L. Lenzi), Italiani anche noi. Corso di italiano per stranieri. Il libro della scuola Penny Wirton, Trento, Il Margine, 2011, p. 90; Id., L’11 settembre di Eddy il ribelle, Roma, Gallucci, 2011, p. 109.
Arendt, Hannah, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, (1963, tit. orig.: Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil) Milano, Feltrinelli, 1964.
Dai Pra’, Silvia, Quelli che però è lo stesso, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 160.
De Propris, Fabio, Lo strazio politico della Mastrocola, recensione al pamphlet Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola, “Alias”, supplemento settimanale del Manifesto, n° 10 – 12 marzo 2011, p. 15.
D’Orta, Marcello, Io speriamo che me la cavo. Sessanta temi di bambini napoletani, Milano, Mondadori, 1990 (poi trasposto al cinema nel 1992 da Lina Wertmüller, protagonista Paolo Villaggio). Da segnalare anche i ricordi di D’Orta scolaro, raccolti nel recente volume Aboliamo la scuola, Milano, Giunti, 2010, pp. 192, e gli indignati articoli dell’autore (http://www.ilgiornale.it/autore/marcello_dorta/id=5042), ormai ex insegnante, sullo sfascio della scuola altrui.
Edgü, Ferit, Un inverno ad Hakkâri (tit. orig.: Hakkâri’de bir mevsim, 1977), trad. it. di Peter Kurtböke e Marta Alessandri, Catania, De Martinis & C. Editori, 1995; nuova edizione a cura di Carlo Guarrera, Messina, Mesogea, 2009, pp. 215 (un tema affine al romanzo, ma con toni più nazionalistici, viene trattato dal recente film di Orhan Eskiköy e Özgür Doğan Iki dil bir bavul, Olanda-Turchia, 2008; trad it.: “due lingue, un baule”; tit. inglese: On the Way to School).
Mastrocola, Paola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Parma, Guanda, 2011, pp. 271
Mastronardi, Lucio (1930-1979), Il maestro di Vigevano, Torino, Einaudi, 1962.
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa – Quarant’anni dopo, a cura della Fondazione Don Lorenzo Milani, presentazione di Sandra Gesualdi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2007, introduzione pp. CXII + pp. 166).
Scurati, Antonio, Il sopravvissuto, Milano, Bompiani, 2005.
Starnone, Domenico, Ex cattedra, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 131 (raccoglie testi pubblicati nel corso dell’anno scolastico 1985-86 sul quotidiano “Il Manifesto” nella rubrica omonima). Ora in edizione ampliata Ex cattedra e altre storie di scuola (Milano, Feltrinelli, 2008).
Starnone, Domenico, Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso (Milano, Feltrinelli, 1995) Altri titoli dello stesso autore relativi all’argomento: Fuori registro, Milano, Feltrinelli, 1991; Sottobanco, Roma, e/o, 1992).
Note
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[1] Vedi Luca Serianni, Giuseppe Benedetti, Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti, Roma, Carocci, 2009, p. 212 (cito il saggio per avergli un po’ copiato il titolo e perché contiene una descrizione del lavoro del’insegnante di italiano non romanzesca, ma professionale, e nel senso appassionato del termine).
[2] La frase in esergo è ricopiata, con tutte le sue imprecisioni ortografiche (Hanna è in realtà Hannah, ad esempio), da un foglio che mi regalò un collega insieme alla riproduzione del manoscritto dell’Infinito di Leopardi. All’alto contenuto di quella frase, tratta da La banalità del male, e alla sua forma imperfetta è ispirata in parti uguali la mia relazione.
Mi riferisco qui a due delle sette storie fondamentali individuate da Christopher Booker nel suo libro The Seven Basic Plots: Why We Tell Stories (Continuum, London 2004, pagg. 728). Le sette trame fondamentali di qualunque racconto per Booker sono, oltre a “dalle stalle alle stelle” (From Rags to Riches – la vicenda di persone normali che scoprono di essere migliori di quanto non pensassero, come in Cenerentola, David Copperfield o Jane Eyre) e “la rinascita” (Rebirth – in cui si parte da una morte, apparente o simbolica, per poi tornare a vivere, come nel caso di Biancaneve, Canto di Natale, Delitto e castigo), “la ricerca” (The Quest), “il viaggio e il ritorno” (Voyage and Return), “il mostro sconfitto” (Overcoming the Monster), “la commedia” (Comedy) e “la tragedia (Tragedy).
[4] Cito a proposito una frase tratta da Giuliano Tanturli, presentazione del libro di Maria Luisa Vallomy Bettarini, Lucciole al fuoco. La parlata del Mugello nell’uso degli anziani e nelle pagine degli scrittori, Firenze, Edizioni Polistampa, 2002 pubblicata sulla rete: «C’è un passo della Lettera a una professoressa sui sormenti, variante mugellana, anche qui registrata, di sarmenti (un’altra antica, ma usata almeno fino a ieri in altre parti del contado fiorentino è sermenti): “Conosco anche i sormenti. Li ho potati, li ho raccolti, ci ho cotto il pane. Lei su un compito m’ha segnato sormenti come errore. Sostiene che si dice sarmenti perché lo dicevano i latini. Poi di nascosto va a vedere sul vocabolario cosa sono”.»
Vedi il link
[5] Giuseppe Giacchino Belli – IL SAGGIO DEL MARCHESINO EUFEMIO
A dì trenta settembre il marchesino,
D’alto ingegno perché d’alto lignaggio,
Diè nel castello avito il suo gran saggio
Di toscan, di francese e di latino.
Ritto all’ombra feudal d’un baldacchino,
Con ferma voce e signoril coraggio,
Senza libri provò che paggio e maggio
Scrivonsi con due g come cugino.
Quinci, passando al gallico idïoma,
Fe’ noto che jambon vuol dir prosciutto,
E Rome è una città simile a Roma.
E finalmente il marchesino Eufemio,
Latinizzando esercito distrutto,
Disse exercitus lardi, ed ebbe il premio.
22 luglio 1843
[6] Si veda ad esempio Francesca Giusti, Lettera di una professoressa, Roma, Donzelli, 1998, pp. 96 e l’intervento di Mila Spicola Lettera di una professoressa a don Milani sul sito della rivista “Micromega” datato 11 marzo 2010