(Materiali utili per un percorso didattico sul DESIDERIO)
Appunti per l’apertura Mondo in pace 2011 – Genova 12 ottobre 2011
de-sidera:
Dal latino de-sidera, termine legato alle stelle. Un’ipotesi etimologica del termine affonderebbe nel De bello gallico, dove i de siderantes erano soldati che attendevano, fissando attentamente le stelle, i destini della battaglia dell’indomani.
guidando gli altri come cavalli
forse c’è chi si sente soddisfatto
C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.
Danilo Dolci, “Ciascuno cresce solo se sognato”
Quando desiderare era ancora efficace
“I fratelli Grimm non avrebbero potuto iniziate la loro raccolta di fiabe con una frase più eloquente di quella che apre il loro primo racconto, Il Re Ranocchio. La frase è questa:
“Ai tempi antichi, quando desiderare era ancora efficace, viveva un re che aveva delle figlie tutte bellissime; ma la più giovane era così bella che persino il sole, che ne ha viste tante, andava in estasi ogni volta che splendeva sul suo volto.”
Quest’inizio situa la storia in un’epoca irripetibile da fiaba: il periodo arcaico in cui tutti credevamo che i nostri desideri potessero, se non smuovere le montagne, almeno cambiare il nostro destino, e in cui, secondo la nostra visione animistica del mondo, il sole si accorgeva di noi e reagiva agli eventi. La sovrumana bellezza della fanciulla, l’efficacia del desiderio e l’estasiarsi del sole significano che siamo di fronte a un fatto assolutamente unico. Sono queste le coordinate che situano la storia non in un tempo o in un luogo appartenenti alla realtà esterna ma in una condizione mentale: quella dei giovani di spirito. In virtu’ di questa sua collocazione, la fiaba può coltivare tale spirito meglio di qualsiasi altro genere letterario.”
Bruno Bettelheim – Il mondo incantato pag 63-64
“…. vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole” – Dante, Inferno
Tra queste citazioni esistono delle parentele importanti:
-il desiderio è una affezione onnipotente, solo un potere sconfinato dà la possibilità di realizzare i desideri
-il desiderio appartiene al mondo dei sogni, al potere umano di immaginare le cose come non sono e di inventarle.
-il desiderio appartiene alla condizione giovanile, ad una condizione mentale di mutabilità in cui gli elementi del reale sono riutilizzati in funzione di sé.
L’educazione se tale vuole essere deve appropriarsi di tutte e tre queste caratteristiche: avere la presunzione onnipotente di poter cambiare i destini umani, essere capace di sognare le persone come non sono, essere capace di accogliere la mutabilità, sperimentalità agita dei giovani.
Poiché siamo saggi, sappiamo anche che l’onnipotenza pedagogica è una grave malattia, che scambiare i sogni per realtà lo è altrettanto e così il giovanilismo.
Premesso, quindi, che siamo a conoscenza degli antidoti per i superdosaggi, occorre rivendicare all’educazione onnipotenza, sogno e mutabilità.
Sono tre cose che ci aiutano ad elevarci, come dice Korkzak all’altezza del bambino o degli adolescenti, perché ci rendono simili a loro e capaci di assumerne il punto di vista.
Detto questo voglio solo parlare di come sia possibile desiderare, sognare, essere giovani in un mondo in cui sogni e desideri sono vittime di un genocidio mentale conclamato, organizzato da vecchiezza imperante.
Il primo punto è conservare la capacità di ‘guardare le stelle’ e orientarsi sui loro segni, questo è possibile solo attraverso rituali e liturgie che consentono di tenere in vita ogni giorno la tensione verso la missione del lavoro educativo. Questo rituale è fondato sulla rilettura continua della realtà in movimento dei giovani che crescono, su una narrazione continuamente rinnovata del processo educativo che ci coinvolge come attori e destinatari al tempo stesso. È una liturgia della parola in cui si cercano le parole necessarie a dare un senso agli accadimenti incoerenti e contraddittori propri del lavoro educativo con i giovani.
Il secondo è riuscire a scoprire in ciascun giovane, singolarmente preso, il senso del sogno educativo, far sentire che qualcuno crede in lui e lo vede come non è ora e quindi essere capaci di mettere in atto tutti i costrutti che facciano sentire ai giovani la presenza di una cura e di una attenzione che sono “esclusivi” per lui.
Il terzo è accogliere l’esperienza dei giovani, considerare i loro errori come fecondi, accogliere anche l’aggressività come espressione comunicativa da leggere per trovare un filo significativo nella convulsa vita giovanile.
Detto in modo diverso, occorre costruire contenitori per le ansie degli educatori e dei giovani assieme, organizzare le attività in modo accurato, dotarsi di virtù passive quali l’osservazione e l’ascolto.
L’attività riflessiva per gli educatori è il luogo fisico e mentale in cui il sogno si rinnova, in cui concetti e punti di riferimento si muovono liberamente per rifondersi in nuovi costrutti mentali, nuove costruzioni di senso. Per questo è per noi fondamentale che il luogo di riflessione sia psicologicamente aperto, che assuma il dolore, il disagio, la rabbia, la frustrazione, l’aggressione, il conflitto, i silenzi, le urla come elementi del campo (humani nihil a me alienum puto), perché sono le emozioni a rimettere in movimento il pensiero e ad imporci la ricerca di costrutti mentali adeguati a tenere insieme ciò che rischia di ‘scoppiare’, di uscire dalla coppia reale-pensabile, di uscire fuori della possibilità di senso.
Tutte le volte che studiamo da vicino le dinamiche all’origine della dispersione scolastica, noi entriamo in contatto con la macchina della follia, un sistema folle che genera contemporaneamente dolore ed espulsione per entrambi i protagonisti: dolore e fallimento nei docenti, dolore e fallimento nei giovani; uno scoppio di follia, scissione delle parti del sistema e delle parti interne di ciascuno. Nel lavoro educativo noi semplicemente cerchiamo di mantenere le connessioni delle parti interne come delle parti del sistema e cerchiamo sistematicamente le corrispondenze tra ciò che si agita negli animi e ciò che perturba il sistema.
Il cammino dell’educazione non si compie se non passando attraverso stati di squilibrio così come l’andatura bipede non si realizza se non passando attraverso una continua e provvisoria perdita di equilibrio.
E’ la consapevolezza della scissione sistemica e personale che ci consente di guardare con sguardo solidale la sofferenza dei giovani insieme a quella degli adulti che gli stanno accanto a cominciare dai docenti e dagli educatori. E la ricerca di senso non è mai contro ma insieme. La nostra esperienza forse si distingue da tante esperienze che hanno saputo fare un buon lavoro con giovani altrimenti emarginati, perché abbiamo fatto a meno del nemico, della necessità scissa di attribuire ad altri o ad altro le nostre difficoltà. Non è semplice farlo, non è semplice tollerare di vivere in condizioni estreme, sentirsi attaccati e disconosciuti da ogni parte e partire sempre dall’interrogarsi su di sé, su come riusciamo a conservare noi stessi nelle avversità piuttosto che pensare ad evitare le avversità o immaginare che siano eliminabili. Non è un filosofia della rassegnazione, tutt’altro, è una filosofia delle resistenza e dell’educazione perché è questa capacità di tollerare le frustrazioni, le sconfitte e le ingiustizie che ci avvicina veramente ai giovani che pretendiamo di educare. E solo scendendo nel loro inferno che noi ci eleviamo alla loro altezza e ci rendiamo capaci di guidarli fuori di esso. C’è una frase lapidaria di Carla che inchioda i critici di diversa sponda: il pensiero autoritario pretende di eliminare i diversi, quello superficialmente democratico elimina la diversità perchè si rifiuta di pensarla, di renderla visibile.
Molti critici hanno osservato che nella narrazione di Carla c’è solidarietà senza cedimenti sentimentali, c’è una determinazione che va oltre ogni avversità. È la stessa cosa che ci hanno riconosciuta i primi allievi: voi non smettete proprio mai. E Carla Melazzini queste caratteristiche le aveva scritte insieme nel DNA della montanara e del pensatore rigoroso addestrato a trovare fili di senso nelle materie le più aggrovigliate. Ma senza togliere nulla al suo merito personale, devo sottolineare che tutto questo era ed è un metodo di lavoro che consente anche a giovani persone, ai nativi digitali invece che ai nativi dei monti, di conquistare per sé la capacità di produrre senso piuttosto che l’agitarsi insensato.
Dunque il rituale che ci consente di rinnovare il sogno educativo è un rituale in cui si cerca di riannodare fili spezzati partendo dalla costatazione della rottura, e si stabilisce così un campo aperto, sconvolto e sconvolgente, che rende possibile un pensiero insieme accogliente e disincantato, flessibile ma rigoroso. La prosa di Carla Melazzini è quella che nel modo migliore rappresenta la complessità delle attività riflessive condotte per dieci anni nel progetto Chance e che oggi continuiamo in forme diverse nel progetto E-VAI.
E’ l’ascolto vero, sincero, di chi ha imparato a calarsi nella parte dei perdenti e degli sconfitti che ci ha consentito di capire come non possiamo sovrapporre i nostri desideri a quelli dei nostri allievi.
Il desiderio non è appetenza al possesso, o nostalgia di un bene perduto, ma una disposizione emotiva che ci fa vedere come possibile un sogno, che ci fa ritenere di avere il potere di realizzare ciò che decidiamo. È necessariamente illimitato e solo successivamente al suo dispiegarsi fa i conti con le limitazioni del reale.
Come dice Bettelheim, il tempo dei desideri è un tempo passato ed irreale ed il lavoro educativo consiste nell’accedere a questi spazi e rendere possibile il desiderio.
Perché il desiderio di cui parliamo non è solo quello dell’educatore che accompagna i giovani, ma quello dei giovani che crescono e richiede uno spazio interiore che le circostanze della vita hanno contribuito ad ostruire. I vincoli culturali ed emotivi posti dall’ambiente di vita, rendono insostenibile il peso del desiderio; i pregiudizi sociologici di troppi educatori impediscono di vedere le ostruzioni dell’animo, per concentrarsi sulla desiderabilità del cambiamento sociale, o dell’ascesa sociale. Quando lo spazio mentale non c’è il sogno si avvicina pericolosamente all’incubo: i giovani vedono la terra promessa oltre un abisso e temono di avanzare sul ponte precario che collega le sponde. Così nella scrittura di Carla una sconfitta cogente, un’allieva che abbandona il percorso dopo quattro anni di attività costruttiva alla vigilia del diploma perché deve sposare ‘un bravo giovane’ (che è talmente bravo che non ritiene necessario che lei studi, meglio ancora glielo proibisce) si trasforma nella riflessione amara e al tempo stesso costruttiva che ci invita a guardare con occhio solidale alla scelta – che resta sbagliata – di questa allieva e ci aiuta a capire quanto sia importante proteggere in lei il seme della conoscenza e della libertà piuttosto che volerne assaporare in fretta frutti maturati artificialmente.
E così dopo aver contemplato l’abisso possiamo approdare ad individuare i parametri del successo non nei successi ‘mondani’ ma nella ritrovata connessione con tutte le proprie parti, riassunte esemplarmente da un giovane al ritorno del ‘viaggio di formazione’ successivo al diploma: abbiamo camminato, abbiamo sudato e non abbiamo mangiato continuamente.
Abbiamo ritrovato la voglia di esplorare il mondo, ci siamo riappropriati del corpo, abbiamo smesso di dipendere dai bisogni primari.
Non lo hanno detto, ma forse avrebbero potuto dire ‘ci siamo conquistati la possibilità di desiderare’.
Questa è l’eredità lasciata da Carla Melazzini a loro e a noi.
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Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca, Sellerio 2011
Prossimamente a Bologna:
21 novembre 2011 – Aula Magna Facoltà di Scienze della Formazione, Via Filippo Re 6 – Bologna dalle 9,30 alle 11,30
Incontro con Cesare Moreno, Maestro di strada,
in occasione dell’uscita del volume “Insegnare al Principe di Danimarca” di Carla Melazzini, a cura di Cesare Moreno.Ne discutono con il Curatore: Alessandra Gigli, Antonio Genovese, Alessandro Tolomelli.
Sostenete la Fondazione Maestri di strada
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