Il 27 gennaio, ormai da oltre un decennio, si commemora la Giornata della Memoria. La Memoria dell’olocausto, che vuol dire bruciare tutto, distruggere tutto. Questo era l’intento dei nazisti: bruciare tutto ciò che fosse difforme, nel corpo, nel modo di pensare, nella razza rispetto ai loro canoni.
Non è cosa nuova, anzi il bisogno di uniformare è insito nell’essere umano. Se fossimo tutti perfetti che mondo sarebbe! Basterebbe sapere cosa è perfetto!
Non è cosa accaduta una volta e mai più, non illudiamoci. Le forme di genocidio saranno diverse, ma l’idea di genocidio, la pratica del genocidio continua ed è propria dell’essere umano e di nessun altro essere vivente sulla terra.
Da un parte la musica di Monteverdi, la Divina Commedia, le grandi filosofie, le scoperte degli scienziati, dall’altra il genocidio. Paghiamo cara la nostra presunta superiorità di esseri umani.
Eppure, nonostante tutto, ogni anno è difficile sentire la giornata della Memoria, sembra diventare una ricorrenza doverosa, nelle scuole si dice: bisogna far qualcosa per la giornata della Memoria. Un dovere.
Quest’anno ho vissuto la Giornata del Memoria in una scuola nuova e antica. Nuova perché vi lavoro da meno di un anno, antica perché è stata la scuola della mia giovinezza, il mio liceo classico.
Il vecchio liceo si è ampliato di una sezione linguistica e recentemente si è aggregato un liceo artistico. Parlo dell’Istituto Superiore d’Adda, di Varallo Sesia (Vercelli).
Proprio grazie ai ragazzi del liceo artistico quest’anno per me la giornata della Memoria ha avuto ancora una volta valore, pregnanza, realtà.
Devo ringraziare anche un professore, un collega, che ha parlato ai ragazzi della terribile storia di quegli anni con accenti di vera, personale, viscerale commozione. Le sue parole mi hanno riportata all’unica volta in cui ho visitato un lager, proprio Auschwitz. Avevo 18 anni, era un viaggio estivo, organizzato, un lungo viaggio nell’Europa dell’est, allora c’era ancora il muro di Berlino. Fu un viaggio significativo, in quel momento molte cose mi colpirono, nel tempo l’emozione più viva è però il ricordo del lager.
Del fatto che, una volta visitato un lager, tu non possa più vedere il mondo come prima ha parlato il mio collega. Ha detto una cosa semplice che riporto perché esprime bene quel che si prova. Il professore ha ricordato come nelle stanze dei lager siano raccolte le scarpe, migliaia di scarpe dei deportati. Ebbene così ci ha confessato: “ogni volta che guardo al mattino le mie scarpe, penso a quel mucchio enorme di scarpe di persone morte nei capi di sterminio”. Nulla per chi visita quei luoghi è più come prima.
E poiché i testimoni diretti invecchiano e muoiono, bisogna fare memoria, noi siamo testimoni, depositari del compito di ricordare. Questo hanno fatto i ragazzi del Liceo Artistico. Nel corso di tre anni scolastici, su sollecitazione dei docenti, hanno reinterpretato, rivissuto, riportato attraverso installazioni, opere pittoriche, scultoree, fotografie, il dramma infinito, tremendo, indicibile dei lager. Hanno tramesso davvero l’indicibile, grazie alla sublimazione dell’arte, sia pure nell’espressione di ragazzi molto giovani. Dei lavori è stata fatta una mostra e dalla mostra un catalogo, che quest’anno è stato presentato, proprio il 27 gennaio. Si intitola “La Shoah. Frammenti di immagini” ammirevole, stupefacente è la capacità, attraverso oggetti e idee semplici, di rendere la moltitudine si sentimenti di chi ascolta le storie dei deportati, ma anche di chi è stato deportato, in un processo di empatia che solo l’arte può permettersi.
Sia reso merito dunque alla scuola, a tutta la scuola, ai professori, agli studenti, credo che non vi sia altro luogo ove la memoria sia detta e resa ogni anno viva e concreta.
Nella speranza che nel futuro, chissà quando, ogni genocidio sia davvero solo un terribile ricordo.