Ho proposto questo tema con una certa titubanza. Le ragioni della mia esitazione sono principalmente due: prima di tutto si tratta di un argomento che non è certo nuovo nella didattica della disciplina, in secondo luogo temo il giudizio dei dantisti, di fronte a simili tentativi di attualizzazione dei classici e alle forzature inevitabili di tali confronti. Tuttavia ho deciso di presentare questo percorso, perché si tratta di un’esperienza sperimentata in classe, sulla quale ho riflettuto anche in seguito, e come insegnante credo che le cose che funzionano con i ragazzi siano piccole gemme preziose, “ l’anello che tiene” di montaliana memoria da opporre alla rete sfilacciata di un sapere che non sedimenta, che sembra scivolare via nell’indifferenza se non nel rifiuto.
Nella mia esposizione cercherò di raccontare come si è svolto questo modulo tematico, (uso il termine “modulo” anche se preferisco definire con il termine “esperienza” quello che vivo a scuola), quali altri possibili percorsi si potrebbero attivare, pensando a una riproposizione del lavoro in altre classi, e anche a ipotizzare per quali misteriose ragioni queste letture abbiano funzionato.
Siamo in una classe terza di un Istituto Tecnico per Geometri nel mese di novembre.
I primi mesi di scuola sono stati dedicati alla propedeutica della letteratura e allo studio della Letteratura delle origini. Il problema del senso dello studio della letteratura si è posto fin dall’inizio, anche perché questo è il primo anno del triennio e in terza ci si gioca molto del futuro interesse per la disciplina e della metodologia di studio. Fin dall’estate ho pensato di proporre per ogni anno del triennio una lettura parallela di un autore classico e di un autore del Novecento: perciò ho scelto di accostare Dante – Levi ( L’ Inferno – Se Questo è un uomo ) in terza; Ariosto- Fenoglio ( Orlando Furioso- Una questione privata ) in quarta; Pirandello – Kafka ( Il fu Mattia Pascal- La Metamorfosi ) in quinta.
Nei miei studenti l’attesa di leggere Dante era forte e non per merito mio, ci sono state le letture di Benigni in televisione, c’è addirittura un video-gioco ispirato alla Commedia, c’è il fascino e la sfida di affrontare un “grande della letteratura” ( su questo ultimo punto anche l’insegnante può contribuire a creare un orizzonte di attesa ). Io cercavo uno sfondo integratore a cui ricondurre i diversi contenuti che avremmo affrontato: lo sfondo sarà il concetto di INFERNO: inferno come regno dell’oltretomba in Dante, inferno come luogo dell’immaginario ( per noi oggi ), inferno come categoria della modernità, inferno in terra come luogo della storia ( in Levi ). Per quanto riguarda questo ultimo punto è necessario far riferimento anche ad altre recenti tragedie umanitarie. Personalmente mi sono servita di articoli di giornale e della lettura di alcuni capitoli del libro straordinario I racconti della Kolyma di Salamov, scrittore reduce dei Gulag sovietici.
Non so se qualcuno ha notato che nell’antologia delle letture personali di Primo Levi La ricerca delle radici, voluta da Giulio Bollati e pubblicata nel 1981, non figura Dante. Nella Prefazione Levi dichiara di essere rimasto egli stesso stupito, accingendosi a svolgere questo lavoro di ricerca dei libri significativi, le radici appunto, che fra gli autori preferiti «non ci siano donne, né scrittori appartenenti alle culture non-europee, che i magici abbiano prevalso sui moralisti, e i moralisti sui logici, che l’esperienza concentrazionaria abbia pesato così poco».[1] Nell’antologia incontriamo Omero, Rabelais, Porta e Belli, Schalòm Alechém ( «la salvazione del riso» – dirà in un’intervista a «Paese Sera» del 1981 ), Parini , Swift, Melville, Conrad, Darwin, l’amico Rigoni Stern e tanti altri, ma non Dante. Nella Prefazione, tuttavia, Levi dichiara che nell’apprestarsi a scegliere gli autori si è sentito messo a nudo, «più esposto al pubblico che nello scrivere libri in proprio, quasi in possesso delle opposte impressioni dell’esibizionista che nudo ci sta bene, e del paziente sul lettino in attesa che il chirurgo gli apra la pancia; anzi in atto di aprirmela io stesso,- dice- come Maometto, nella nona bolgia e nell’illustrazione del Dorè in cui il compiacimento masochistico del dannato è vistoso.» [2]
Levi non include Dante nella sua antologia, ma Dante è già presente nelle pieghe del testo, citato e alluso con familiarità. Questa assenza comunque ha colpito i critici, soprattutto pensando al posto che l’autore della Commedia occupa in Se questo è un uomo, perciò in diverse interviste è stato chiesto a Levi il motivo dell’omissione di Dante, e non solo, ma anche di altri classici della letteratura italiana: Ariosto, Manzoni, Foscolo, Leopardi. Le risposte di Levi sono molto interessanti: innanzitutto lo scrittore dichiara di essere stato un cattivo studente di letteratura:
«Preferivo la chimica. Mi annoiavano le lezioni di teoria poetica, la struttura del romanzo e roba del genere. Ma quando fu il momento e dovetti scrivere Se questo è un uomo, e allora avevo davvero un bisogno patologico di scriverlo, trovai dentro di me una sorta di “programma”. E si trattava di quella stessa letteratura che avevo studiato più o meno con riluttanza, di quel Dante che ero stato costretto a leggere alla scuola superiore, dei classici italiani e così via.» [3]
E’interessante dunque vedere come agisca in un uomo del nostro tempo, la ricezione, quasi sottocutanea, del «poema sacro» ( canto XXV del Paradiso ), la memoria attuale della Commedia, in un fecondo intreccio tra passato e presente.
In un’altra intervista, questa volta a Giovanni Tesio, Levi dichiara di aver deliberatamente escluso i classici della letteratura italiana, perché questi dovrebbero essere patrimonio di ogni lettore, «se li avessi messi – dice- sarebbe stato come se, in un documento d’identità, sul rigo “segni particolari, si scrivesse “due occhi”».[4] Infine in un’intervista sul rapporto tra letteratura- scienza- tecnica, in riferimento alla sua doppia identità di chimico e scrittore, (ma anche italiano ed ebreo: vedi la celebre metafora del centauro in Storie naturali ), Levi istituisce una linea di autori esemplari, che definisce “tubazione”, una condotta che parte da Dante, arriva a Galileo, Spallanzani, Magalotti: scrittori che non avevano una concezione separata della cultura: da un parte gli studi umanistici dall’altra quelli scientifici ma una visione assolutamente unitaria e globale. [5]
Anche questa riflessione di Levi mi sembra una pista interessante da seguire a scuola, partendo da qualche pagina del celebre saggio di Charles Percy Snow, Two Culture ( Le due culture ) 1963, fino al saggio di Italo Calvino Una pietra sopra ( 1980 ), che individua una vocazione profonda della letteratura italiana, che passa appunto da Dante a Galileo, sullo scrivere come mappa dello scibile, come spinta alla conoscenza del mondo. [6]
Dopo questa premessa mi accingo ad affrontare il tema della mia relazione, cioè il rapporto intertestuale tra l’Inferno di Dante e Se questo è un uomo di Levi, anche se la questione del “dantismo” in Levi non si limita a questo confronto, ma richiederebbe di affrontare altre opere che mi limito a citare quali: La tregua, alcuni racconti come Nichel tratto da Il sistema periodico e Capaneo ( personaggio della Commedia, Inf XIV ) compreso nella raccolta Lilit e soprattutto I sommersi e i salvati, dove il titolo stesso è un prestito lessicale dalla Commedia
( «sommersi» Inf VI, v.15 , XX, v.3; «salvati» Inf IV, v. 63). Ricordiamo, inoltre, che il titolo Se questo è un uomo fu una scelta editoriale, ma Levi avrebbe voluto intitolare il suo libro I sommersi e i salvati: un’evidente citazione dantesca.
Il rapporto intertestuale tra l’Inferno e Se questo è un uomo si traduce metodologicamente in classe in una lettura parallela che avviene in momenti diversi. Il testo di partenza da cui scaturiscono i confronti è quello di Levi, perché la lettura di Dante prosegue secondo il programma.
La redazione definitiva di Se questo è un uomo del 1958 si apre con una poesia senza titolo posta in epigrafe che ricalca alcuni versetti di Schemà ( che in ebraico significa “Ascolta”), la preghiera fondamentale degli ebrei.
Nel decimo verso compare la prima parola tratta dalla Commedia, si tratta del verbo “considerate”:
«Considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango […] considerate se questa è una donna /, senza capelli e senza nome», il riferimento è alla dignità calpestata degli esseri umani e la memoria corre subito all’invocazione di Ulisse ai suoi compagni nella bolgia dei consiglieri di frode, Canto XXVI dell’Inferno, vv.118-120: «Considerate la vostra semenza :/ fatti non foste a viver come bruti / ma per seguire virtute e canoscenza».
La meditazione su ciò che distingue l’uomo dal bruto e sul compito morale della conoscenza accomuna già in apertura i due autori. La figura dell’eroe greco sarà poi al centro del capitolo Il canto di Ulisse, dove il Levi prigioniero prova a raccontare al giovane deportato Jean, che nel campo svolge la funzione di Pikolo ( Piccolo ), vale a dire fattorino-scritturale, addetto alla pulizia della baracca, qualcosa dell’Italia.
E’ uno dei rari momenti di tregua nei quali la comunicazione umana è ancora possibile. Levi parla della Commedia, cerca di tradurre nel suo rozzo francese i versi del canto di Ulisse che a intermittenza gli tornano alla mente, dimentica per un momento dove si trova per tornare a essere intimamente se stesso, soffre per le rime che non riesce a ricordare e sente di comprendere fino in fondo e dolorosamente il significato di questo canto. Come scrive Giovanni Tesio nell’Introduzione a Se questo è un uomo,[7] per Levi il vero incontro con Dante avviene nel lager, attraverso quella esperienza Dante diventa lo scrittore guida, e dopo il lager Dante sarà l’ispiratore del viaggio a ritroso per riportare alla luce, attraverso la scrittura, la memoria dell’inferno vissuto.
La reminescenza dantesca del canto XXVI, quale emerge in modo così esplicito da questo episodio, richiama con forza il valore morale collettivo degli atti di memoria e al tempo stesso diviene il simbolo di una resistenza strenuamente umana. Quarant’anni dopo, in I sommersi e i salvati ( 1986), nel capitolo L’ intellettuale ad Auschwitz, titolo mutuato da Jean Améry, Levi definisce il suo uso personale della cultura in contrasto con il severo aforisma di Amèry per cui «nessun ponte conduceva dalla morte ad Auschwitz alla “Morte a Venezia”».[8] Levi vi consente in parte, convenendo sul fatto che« la cultura non era utile ad orientarsi e a capire, al contrario gli incolti si adattavano prima a quel non cercare di capire »,[9] tuttavia «la cultura -dice Levi- forse per vie sotterranee ed impreviste, mi ha servito e forse mi ha salvato». [10] La memoria del Canto di Ulisse:
«mi permetteva di ristabilire un legame con il passato, salvandolo dall’oblio e fortificando la mia identità, mi convinceva che la mia mente, benché stretta dalle necessità quotidiane, non aveva cessato di funzionare, mi promuoveva ai miei occhi e a quelli del mio interlocutore, mi concedeva una vacanza effimera, ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso».[11]
L’episodio sarà ricordato anche da Jean Samuel (Pikolo), uno dei pochi personaggi del libro a essere sopravvissuto, il quale confessò di non aver compreso appieno il senso delle parole di Levi, ma di essersi accorto che quella conversazione stava facendo del bene al suo compagno e di averlo invitato a continuare.
Come l’Inferno di Dante, il libro di Levi contiene un PROLOGO, che si colloca fuori dall’Inferno ( il primo capitolo intitolato “Il viaggio”).Qui si può notare l’andamento cronachistico della narrazione e l’utilizzo del tempo passato; da questo momento in poi l’autore utilizzerà soltanto il tempo presente, non un presente storico ma un presente assoluto, poichè l’idea del tempo dentro il lager non contempla più la nozione di futuro e rimuove l’esistenza del passato. La scelta del presente serve anche a ricordare che come l’inferno dantesco, anche Auschwitz è sempre presente, in quanto eterno pericolo che incombe sull’umanità.
Nel viaggio possiamo seguire il passaggio dal mondo dell’umanità a quello della disumanità, un viaggio dentro un vagone merci, «verso il nulla, un viaggio all’ingiù, verso il fondo», [12] dove subito si presenta alla memoria l’imbuto dell’inferno dantesco. In Levi, come in Dante, scrive Cesare Segre «il modo per indicare il raggiungimento dell’umiliazione massima è topologicamente uno sprofondamento siamo arrivati al fondo, mentre la soglia del passaggio alla tragedia avviene attraverso l’irruzione del grottesco: l’apparizione degli strani individui che si muovono come pupazzi con in testa un buffo berrettino e una palandrana a righe e che marciano al ritmo della canzone Rosamunda». [13]
Forti sono le assonanze tra la condizione dei prigionieri e quella dei dannati: dai barbarici latrati dei tedeschi, al soldato, moderno Caronte, che anziché apostrofare i deportati gridando “guai a voi anime prave”, come Levi si aspetta di sentire, memore del canto III dell’Inferno, domanda in lingua franca orologi e denaro. Infine la citazione dantesca si fa esplicita all’inizio del secondo capitolo intitolato Sul fondo, ma con una distinzione degradante. Se questo è l’inferno, dirà Levi, si tratta di un inferno moderno, dove non c’è posto per la sacralità e la solennità. Il Caronte-soldato tedesco è un personaggio squallido e mediocre che non ha nessuno dei tratti apocalittici dei personaggi luciferini danteschi. In questi soldati c’è solo la convinzione di dovere ubbidire a un ordine di servizio, è “la banalità del male” così come ce l’ha descritta nel suo saggio Hannah Arendt, cioè il male perpetrato con l’abito dimesso e quotidiano del conformismo.
Il capitolo “Sul fondo” comincia con l’immagine di una scritta ARBEIT MACHT FREI ( Il lavoro rende liberi): beffardo ammonimento che ricalca le parole scolpite sulla porta dell’Inferno dantesco, «il cui ricordo ancora mi percuote nei sogni» dice Levi ;[14] “percuote” è verbo caro a Dante (« or son venuto / là dove molto pianto mi percuote», Inferno, canto V, vv. 26-27; « tosto che nella vista mi percosse» Purg XXX, v.40 ).
Attraverso questa porta si entra nella città dolente, nell’eterno dolore, tra la perduta gente di Auschwitz-Birkenau. Ma nell’inferno moderno non esiste nessuna forma di contrappasso, come scrive Lorenzo Mondo «tutti sono ugualmente colpevoli e chiamati a percorrere, in tempi diversi, i diversi gradi dell’abiezione, fino all’annientamento».[15] L’inferno moderno è insensato come le sue leggi: «Hier ist Kein Warum ( Qui non c’è perché)» come dirà poco più avanti Levi, citando ancora Dante: «Qui non ha loco il Santo Volto / qui si nuota altrimenti che nel Serchio»
( Inf XXI, vv.48-49; e Se questo è un uomo, p.26 ) e con questo richiamo a Dante si conclude la prima «lunghissima giornata di antinferno». [16]
Il terzo capitolo si intitola “Iniziazione”, esso ha un valore particolare perché è stato aggiunto nella seconda edizione del 1958. Le riflessioni che possiamo fare sono sostanzialmente due e riguardano il tema della rappresentazione della Shoah e il mandato a scrivere che Levi riceve dal prigioniero Steinlauf.
Se fino a questo momento Levi aveva trovato nelle situazioni e nei personaggi della Commedia “una forma ordinata” in cui inserire la realtà insensata e incomprensibile dell’esperienza del lager, ora si rende conto che la difficoltà non sta solamente nella rappresentazione della realtà ( che per Dante è l’oltremondo «Ahi quanto a dire è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte», Inf I, vv.4-5 ) o nel doverla rivivere mentre la si descrive ( Dante dice « che nel pensier rinnova la paura» Inf I, v.6), ma nella ricerca delle parole. In altri termini: non ci sono le parole per descrivere l’esperienza infernale del lager, ciò determina una situazione di indicibilità linguistica. Dante lo aveva dichiarato « che non è impresa da pigliare a gabbo / discriver fondo a tutto l’universo / nè da lingua che chiami mamma o babbo» ( Inf XXXII, vv.7-9) , cioè non è un impresa di poco conto, da prendere per scherzo ( a gabbo) descrivere il fondo dell’universo ( si riferisce al lago Cocito) da essere tentata da un fanciullo, oppure, secondo altri commentatori, da essere tentata nella lingua d’uso quotidiano e popolare, con parole umili come mamma e babbo.
Allo stesso modo Levi scrive:
«Per la prima volta ci siamo resi conto che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo e se i lager fossero durati più a lungo un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato: e di questo si sente il bisogno per spiegare che cosa è faticare la intera giornata nel vento, sotto zero, con indosso camicia, mutande e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene». [17]
Levi è lo scrittore che forse più di altri sopravvissuti alla Shoah ha posto il linguaggio al centro dei suoi resoconti del Lager, egli come Dante che riassume l’esperienza dell’ineffabilità nei celebri versi del canto I del Paradiso vv.70-71: «Trasumanar significar per verba / non si porìa» (l’innalzarsi verso i limiti dell’umano non è cosa che si possa esprimere con parole umane), coglie appieno i limiti e l’inadeguatezza del linguaggio, ma poiché, come per Dante, la sua missione morale è comunicare con il lettore, trova nel linguaggio stesso la soluzione possibile.
Levi forza il linguaggio verso la chiarezza lapidaria, la precisione del semplice dettaglio, la concisione descrittiva, il ritorno alla lingua ordinaria; interroga la lingua e il lettore su una nuova riflessione, sul significato dei termini usuali di “bene” e “male”, “giusto” e “ingiusto”, “fame, paura, dolore”, ecc.
Affermare che alcuni aspetti del lager sono inesprimibili e arrestarsi davanti all’indicibile, mantenendo il diritto etico all’esistenza di una soglia di riservatezza, diviene in Levi un topos retorico, una strategia della comunicazione che produce una reazione forte e raggiunge lo scopo di dire, pur negando di dire. Mai in Levi prevale la resa al silenzio, egli stesso ne I sommersi e i salvati distingue i sopravvissuti in due categorie: “quelli che raccontano” e “quelli che tacciono” e non v’è dubbio, come ha fatto notare Marco Belpoliti, curatore del volume Conversazioni e interviste che egli sia tra i primi, per il suo impegno come oratore pubblico e oggetto di interviste ( terzo filone importante della sua personalità, insieme ai mestieri di chimico e di scrittore.) «Negare che comunicare si può è falso: si può sempre. Rifiutare di comunicare è colpa», [18] afferma Levi in I sommersi e i salvati in un capitolo dedicato al tema della comunicazione. L’impegno etico non cancella però lo scarto segnalato da Jorge Semprùn, scrittore franco-spagnolo reduce da Buchenwald tra la vita e la scrittura.
«Non è che l’esperienza vissuta sia indicibile. E’caso mai invivibile. E’ qualcosa che non riguarda la forma di un racconto possibile, ma la sua sostanza. Soltanto coloro che sapranno fare della loro testimonianza un oggetto artistico, uno spazio di creazione , o di ricreazione, riusciranno a raggiungere questa sostanza, questa densità trasparente.» [19]
Nel lager domina una confusione di lingue, «una perpetua Babele in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai udite e guai a chi non afferra al volo». [20]
La descrizione di questa folla sgomenta e disorientata fa correre il pensiero alle anime del canto III. «Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle // facevano un tumulto, il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta, / come la rena quando turbo spira.» (Inf III vv.25-30). Levi non farà la scelta del plurilinguismo, dello sperimentalismo linguistico ( questo esperimento di mimesi linguistica sarà tentato, invece, nella Chiave a stella dove i protagonisti sono operai piemontesi ); ci restituisce alcune parole creolizzate e alcuni termini come pane-brot-broit-pain, nelle sette lingue del campo, ma la lingua resta precisa, esatta, «un italiano marmoreo», dirà Cesare Cases, nell’Introduzione al primo volume delle Opere, con il gusto della brevitas, dell’economia e dell’essenzialità espressiva.
Al tempo stesso, però, la lingua sobria e classica di Se questo è un uomo accoglie, come scrive Lorenzo Mondo,«i frammenti, i lapilli di quella Babele: suoni cacofonici esasperati che nascono dalla sofferenza e dall’ira». [21]
Per capire meglio che cosa può essere un luogo dove più nessuna comunicazione è possibile, bisognerebbe ascoltare la prima riduzione radiofonica del romanzo del 1964 ( un radiodramma) che ho avuto la fortuna di sentire al Festival Letteratura di Mantova. Essa ricostruisce con realistica efficacia il contesto di bolgia dantesca attraverso le voci di interpreti di sette lingue, il frastuono di fondo del latrare delle SS, mescolato alle preghiere sommesse e al canto in linguaggi sconosciuti.
Il mito biblico della torre di Babele ritorna spesso nelle pagine di Levi: è la torre del carburo costruita dai prigionieri in mezzo alla Buna ( la fabbrica per la produzione della gomma sintetica ) che ricorda la schiavitù in Egitto, è la barriera linguistica delle molte lingue che determinano la condanna a morte e l’impossibilità di solidarizzare e anche di ribellarsi. [22]
L’incontro con il prigioniero Steinlauf è un momento cruciale, forse per la sopravvivenza di Levi, certamente per la genesi del libro. Steinlauf è un prigioniero cinquantenne, sergente austroungarico e croce di ferro della guerra 1914-18 che al lavatoio apostrofa Primo perché ha rinunciato a lavarsi. Steinlauf sostiene che l’ultima facoltà rimasta ai deportati è quella di negare il proprio consenso, quindi bisogna resistere, camminare dritti, continuare a lavarsi anche nell’acqua sporca e senza sapone, salvare la forma della civiltà per poter sopravvivere e sopravvivere per raccontare, per portare testimonianza.
Come un moderno Farinata degli Uberti, anche se in accezione decisamente positiva, rispetto alla valutazione ambigua che Dante dà del capo ghibellino, Steinaluf ha conservato anche all’Inferno la fierezza del soldato, l’orgoglio e il senso della dignità. Non a caso Levi ce lo rappresenta mentre si staglia “a torso nudo” come Farinata che: « s’ergea col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno in gran dispitto» ( canto X, vv.35-36) quindi dalla cintola in su.
Dall’ altissima lezione di Steinlauf, Levi riceve il mandato a scrivere e dunque a vivere. Scrivere come liberazione interiore e forma di salvezza (dal trauma dell’esilio, come dalla morte), scrivere come espressione della consapevolezza di sé come intellettuale ( per Dante l’esilio è il superamento degli orizzonti comunali, per Levi, Auschwitz è la causa deflagrante del suo essere scrittore), scrivere per molestare le coscienze ( pensiamo al mandato di Cacciaguida nel canto XVII del Paradiso ) e costringere a guardare dentro all’abisso profondo della nostra coscienza.
Levi condivide con Dante l’idea che lo scrittore abbia una missione, un compito morale, non a caso nella sua antologia personale include Parini « era uno di quegli uomini che, attraverso i secoli, desidereresti conoscere di persona, frequentare: magari a tavola, di sera, in riva a un lago, bevendo vino vecchio con moderazione» [23] e che proprio in luogo di questo compito debba scrivere in modo chiaro per farsi capire dal massimo numero di lettori, «da mente a mente, da luogo a luogo, da tempo a tempo, perché chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto». [24]
Il fitto dialogo con Dante prosegue anche nel capitolo successivo intitolato Ka-Be, l’infermeria dove Levi si trova a seguito di una ferita a un piede, dove si fa «vita di Limbo» [25] e nel capitolo in cui viene descritto l’esame di chimica.
Il dottor Pannwitz che interroga Levi è una figura spaventosa, un gigante che siede “formidabilmente” dietro la sua scrivania. L’utilizzo dell’avverbio “formidabilmente” è spiegato dallo stesso Levi in una lettera all’editore tedesco datata Torino 26 marzo 1960: «“siede formidabilmente” è fortemente pregnante ( è una cripto-citazione di Dante, Inferno canto V,v. 4
“Stavvi Minòs, orribilmente, e ringhia”). Vuole esprimere la natura straniera e terrificante di quel giudice infernale come Minosse, che si accinge ad ascoltarmi, ed esprimerà il suo giudizio in modo altrettanto incomprensibile». [26]
Lo stesso capitolo si chiude poi con l’arrivo del Kapò Alex, che indossa scarpe di cuoio, «perché non è ebreo ed è leggero sui piedi come i diavoli delle Malebolge». [27]
Altro prelievo dantesco è la figura di Fra Alberico, uno dei capi guelfi di Faenza, canto XXXIII dell’Inferno, di cui Levi parla in un’intervista del 1987 per la rivista Partisan Review, in riferimento a un episodio in cui lo stesso Dante infierisce su uno dei dannati che giace conficcato in una lastra di ghiaccio talmente spessa da impedirgli di piangere i propri peccati.
L’anima dannata racconta la sua vicenda a patto che il poeta gli rimuova il ghiaccio dagli occhi, ma al termine della conversazione Dante si allontana senza mantenere la sua promessa. La crudeltà del poeta è un atto dovuto ( «E io non gliel’apersi; / e cortesia fu lui esser villano», vv.149-150 ) in considerazione del fatto che la sofferenza inflitta fosse giusta perché meritata. Nello stesso modo, dice Levi, dovevano pensare di noi molti tedeschi, come il Kapò Alex, che si compiacevano di fare del male gratuitamente.
Il tema della presenza del male e dell’esistenza di una zona grigia di ambiguità è indagato per la prima volta nel capitolo “I sommersi e i salvati”, titolo che arriva direttamente dalla Commedia. E’ in questo capitolo che vengono definite le due categorie di uomini che popolano il lager, qui comincia lo studio antropologico dell’uomo e la messa a fuoco dell’infinita capacità di male che si può sprigionare dal sottosuolo della coscienza , qui emerge inesorabile il senso di colpa e la vergogna del sopravvissuto.
Levi si allontana significativamente da Dante e ne rovescia i valori: nell’orizzonte del lager non esiste Dio, nessuna forma di trascendenza, di redenzione, di senso e di provvidenzialità sono possibili ( «Hier ist kein Warum» qui non c’è perché ); al contrario «le vie della salvazione sono desolatamente quelle della colpa: dalla mancanza di solidarietà, agli atti di egoismo fino alla collaborazione nelle opere del male». [28]
Sul tema del sentimento della vergogna: vergogna di sé e vergogna del mondo, Levi cita alcuni episodi in Se questo è un uomo e ne La tregua, ma la riflessione avviene nell’ultimo saggio I sommersi e i salvati. Su questo aspetto centrale nella poetica di Levi, “la vergogna come inaudita e spaventosa prossimità dell’uomo con se stesso” sarebbe interessante fare un approfondimento tematico legato anche ai temi attuali della morale e dell’etica pubblica. Levi si interroga a lungo su questo sentimento per capire da cosa nasce e perché si protrae nel tempo “la vergogna del sopravvissuto”.
A tal proposito sono molto utili il bel libro di Marco Belpoliti Senza vergogna, che considera Levi e Kafka ( Levi traduce Il Processo di F. Kafka,- perché? Alla fine del romanzo Josef K. prova vergogna per l’esistenza stessa del tribunale, un tribunale fatto di uomini e non divino, prova vergogna di essere uomo) e il saggio di Gianrico Carofiglio La manomissione delle parole, esempio di scrittura saggistica che si può proporre a scuola, perché lavorare sulle parole come dice Dante nella Vita Nova, cap.XIII «significa capire l’essenza stessa delle cose che esse designano “Nomina sunt consequentia rerum». [29]
La potenza del sentimento della vergogna è stata descritta da Dante nel canto XXX dell’Inferno, quando nella bolgia dei falsari Virgilio lo rimprovera ed egli sente una «tal vergogna / ch’ancor per la memoria mi si gira» ( vv.134-135), ma ci parlano della “vergogna da svelamento” anche le tavole dei dannati di Dorè che si coprono il ventre con le braccia o l’immagine di Adamo che nasconde il volto, mentre è scacciato dal Paradiso, dipinta da Masaccio nella Cappella Brancacci di Firenze. La vergogna di sé per lo sguardo degli altri ( sentimento messo a fuoco anche da altri sopravvissuti come Boris Pahor, Necropoli), ma anche per lo sguardo interiore ( la strategia dello sguardo diventa uno dei punti salienti della nullificazione del soggetto stesso, scrive Belpoliti [30]), la vergogna del ricordo, la vergogna che il giusto prova davanti alla colpa commessa dagli altri, infine la vergogna stessa di essere sopravvissuti sono analizzate anche da altri reduci: Tzvetan Todorov in Di fronte all’estremo e Jean Amery Un intellettuale ad Auschwitz che morirà suicida come Levi.
Infine in “Storia in dieci giorni”, capitolo finale del libro, il ritorno alla vita è rappresentato dalla rottura della circolarità claustrofobica dello spazio concentrazionario quale Levi ci aveva descritto all’inizio del libro. Si tratta dei due poli opposti dello stesso viaggio che inizia con la perdita di sè e si conclude con la riappropriazione di sé, secondo un movimento circolare. La riconquista della propria dignità avviene dopo la rottura del filo spinato, fuori dal reticolato, fuori dall’imbuto dell’inferno, quando ritornati uomini si può volgere di nuovo il viso verso l’alto e «riveder le stelle» ( Inf. XXXIV, v. 139).
Perché Dante e Levi si riescono a leggere
Nella più ampia riflessione che come associazione stiamo cercano di fare sul canone, riflettere sulle ragioni per cui alcuni autori sono più interessanti e motivanti per i ragazzi, nonché maggiormente formativi secondo gli insegnanti, mi sembra un punto cruciale. Credo a questo proposito che Dante Alighieri e Primo Levi interessino prima di tutto come uomini, per la loro vicenda biografica, per la passione, il coraggio, la sofferenza, l’esemplarità delle loro vite. Risulta curiosa e interessante anche la natura centauresca del loro essere intellettuali: scrittore e uomo politico, narratore e scienziato, esule, ex deportato: una doppia natura li accomuna. Un altro aspetto che desta ammirazione è la ricerca di un sapere universale, esteso a molti campi e non confinato unicamente alla letteratura, infine li avvicina l’idea del compito morale che l’intellettuale sente come prioritario. Un’ ultima e conclusiva osservazione, riguarda i temi e l’opera. In Dante c’è la grandiosità del disegno immaginifico che cattura e coinvolge già a una prima e superficiale lettura, basta lasciarsi prendere per mano e incominciare il viaggio avventuroso della Commedia; in Levi c’è la forza e la fascinazione del discorso epico.
«La storia del romanzo occidentale – ha scritto Claudio Magris – è la storia di un’antiepica: da due secoli il romanzo racconta la mancanza di epicità, il desolato isolamento di destini singoli che non conoscono alcuna superiore totalità che li trascenda, la disgregazione di una vita in cui sembrano esistere soltanto frammenti dispersi e nessun senso che li componga in unità». [31]
La storia degli ebrei è stata grandiosamente epica in sé, e ancor di più negli anni del nazismo. I due libri Se questo è un uomo e La tregua rappresentano moderne opere epiche: sono la nostra Iliade e la nostra Odissea, la continua battaglia per la vita dell’eroe spossessato anche dell’onore della sconfitta, il viaggio avventuroso e picaresco del ritorno alla vita e del recupero dell’uomo. [32]
Altre esplorazioni
C’è un tema che io non ho esplorato ma che sarebbe molto motivante per una classe ed è quello dell’ AMICIZIA. Partendo dalle dichiarazioni di Dante nelle Rime sul valore dell’amicizia: relazione con Cavalcanti e gli altri poeti stilnovisti «Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io» ( Rime, IX ), il suo rapporto con Virgilio, amico e guida, con Brunetto Latini ( Inf, XV ); fino a Levi per il quale l’amicizia permea tutti gli aspetti della vita.
Levi ce ne dà una definizione in una poesia poco nota intitolata Agli amici del 1985, nella quale i momenti di amicizia diventano l’unità di misura della vita. La sua opera è costellata dal vocabolario e dalle immagini dell’amicizia: già nella preghiera Shemà che apre Se questo è un uomo, «il cibo caldo e visi amici» contribuiscono a definire il mondo comune che è l’antitesi del lager, poi c’è l’amicizia con l’inseparabile Alberto che scomparirà nella marcia di evacuazione del campo, l’amicizia fraterna con l’operaio Lorenzo che lo aiuta a sopravvivere, ma anche l’amicizia che sente nei confronti lettori ( in Dello scrivere oscuro ), per i libri e gli autori preferiti ( in La ricerca delle radici) persino per i metalli ( “metalli amici” e “metalli nemici” in Il Sistema periodico ) . «La rete di affinità che Levi tende a creare tra gli elementi, la sua ricerca di un senso di comunità sono elementi costitutivi della sua sensibilità etica e di un “pensare all’antica”, come scrive Robert Gordon, premoderno, o almeno premodernista ».[33]
BIBLIOGRAFIA
Testi
Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, Firenze, Nuova Italia, 1955
Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di Alfonso Berardinelli, Garzanti, Milano 1997
Jean Améry, Jenseits von Schuld und Sühne (1966) Intellettuale ad Auschwitz, Milano, Adelphi 1987
Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi 1958
Primo Levi, La tregua, Torino, Einaudi 1963
Primo Levi, Storie naturali, Torino, Einaudi 1967
Primo Levi, Il sistema periodico, Torino,Einaudi 1975
Primo Levi, La chiave a stella, Torino, Einaudi 1978
Primo Levi, La ricerca delle radici,Torino, Einaudi 1981
Primo Levi, Lilìt e altri racconti, Torino, Einaudi 1981
Primo Levi, L’altrui mestiere, Torino, Einaudi 1985
Primo Levi, I sommersi e i salvati,Torino, Einaudi 1986
Primo Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987,Torino, Einaudi 1997
Boris Pahor , Necropoli ( 1967), Roma, Fazi Editore 2008
Varlam Šalamov, КОЛЬІМСИЕ РАССКАЗЬІ, s.l. 1952, trad.it. I racconti della Kolyma, Milano, Adelphi 1995
Jorge Semprún, L’écriture ou la vie, Paris, Gallimard, 1994, trad.it. La scrittura o la vita, Parma, Guanda 1996
Tzvetan Todorov, Face à l’extrême, Edition du Seuil 1991, Di fronte all’estremo. Quale etica per il secolo dei gulag e dei campi di sterminio, Milano,Garzanti 1992
Saggi
Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem, s.i.t.1963, trad.it La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli 1964
Marco Belpoliti ( a cura di ), Primo Levi, Milano, Marcos y Marcos 1997
Marco Belpoliti, Senza vergogna, Parma, Guanda 2010
Italo Calvino, Una pietra sopra, Milano, Mondadori 1995
Italo Calvino, Lezioni americane, Milano, Garzanti 1988
Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole, Milano, Rizzoli 2010
Cesare Cases Introduzione a P. Levi, in Opere, vol.I, Torino, Einaudi 1987, pp. XIII
Ernesto Ferrero ( a cura di ) Primo Levi. Un’antologia della critica, Torino, Einaudi 1997
Robert Gordon, Primo Levi’s Ordinary Virtues. From testimony to Ethics (2001), Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, Roma, Carocci 2003
Lorenzo Mondo, Primo Levi e Dante, in Atti del Convegno internazionale di S. Salvatore Monferrato, 26-27 settembre 1991
Cesare Segre, Se questo è un uomo, in Letteratura italiana. Il secondo Novecento, ( a cura di Alberto Asor Rosa), Torino, Einaudi 1996-2007
____________________________________________________________________
NOTE
[1] Primo Levi, La ricerca delle radici, Torino, Einaudi 1981, p. IX
[2] Primo Levi, Ibid, p. IX
3 The Litterary Review, November 1985, in Primo Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi 1997, p. 66
4 Primo Levi, Nego di essere gran lettore di classici e di romanzi, in Nuovasocietà, 11 luglio 1981, in Conversazioni e interviste, cit., p.154
5 Primo Levi, Conversazioni e interviste, cit., pp. 173-174
6 Italo Calvino, Una pietra sopra, Milano, Mondadori 1995, p. 227
[7] GiovanniTesio , Introduzione a Se questo è un uomo, Torino, Einaudi 1992
[8] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi 1986, p.115
[9] Ibid, p.115
10 Ibid, 112
11 Ibid, p. 112
[12] Primo Levi, Se questo è un uomo, cit, p. 10
[13] Cesare Segre, Letteratura italiana. Il secondo Novecento,Torino, Einaudi 1996- 2007, p. 144
[14] Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 17
[15] Lorenzo Mondo, Primo Levi e Dante, in Atti del Convegno internazionale di S. Salvatore Monferrato, 26-27 settembre 1991, p.225
[16] Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., p.26. Scegliendo il termine “antinferno”, Levi fa propria la definizione dei commentatori del terzo canto di Dante
[17] Primo Levi, Se questo è un uomo,cit., p.131
[18] Primo. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 69
[19] Jorge Semprùn, L’écriture ou la vie, Paris, Gallimard, 1994, trad.it. La scrittura o la vita, Parma, Guanda 1996, p.20
[20] Primo Levi, Se questo è un uomo,cit., p. 35
[21] Lorenzo Mondo, Primo Levi e Dante, in Atti, cit., p.226
22 Il significato del mito della Torre di Babele è stato analizzato da Cesare Segre nel corso di un Convegno a Princeton (30 aprile-2 maggio 1989); Cesare Segre Primo Levi nella Torre di Babele, in Primo Levi as Witness, a cura di Pietro Frassica, Firenze, Casalini Libri 1990
[23] Primo Levi, La ricerca delle radici,cit., p.43
[24] Primo Levi, Dello scrivere oscuro in L’altrui mestiere, Torino, Einaudi 1985, III, p.635
25 Primo Levi, Se questo è un uomo, cit.,p. 49
26 Ibid, p.112
27 Ibid, p. 114
28 Lorenzo Mondo, cit., p.228
29 Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di Alfonso Berardinelli, Garzanti, Milano 1997, p.2
30 Belpoliti, Senza vergogna, Parma, Guanda 2010, p.84
[31] Claudio Magris, Epica e romanzo in Primo Levi, in Primo Levi, a cura di M. Belpoliti, Marcos y Marcos, Milano 1997, p. 138
[32] A questo proposito vedi: Mario Rigoni Stern, Primo Levi, moderna Odissea e Bernard Delmay, Primo Levi, un’epica in contrappunto in Marco Belpoliti, cit.
33 Robert Gordon, Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, Carocci, Roma 2003, p. 193
___________________________
(INTERVENTO PRESENTATO AL CONGRESSO ADI SD DI TORINO, SETTEMBRE 2011)