Jessy Simonini – Università di Nantes – 2 maggio 2020
« Si va giù a passo per i vicoli, via dalla piazza, estranei, con uno stomaco che deve ingoiar qualcosa e un barlume di pensiero che domani tenterà di orientarsi in questo casino, per continuare a fare quel che volevano i morti » (Giovanna Zangrandi, I Giorni veri, )
« L’Agnese disse : — Sì, — anche con la testa, si allontanò subito dalla donna, concluse, fregando una contro l’altra le sue palme dure: — I ribelli muoiono per gli imbecilli. Le fecero largo, lei camminò fra due file umane di stupore, prigioniera di tutti quegli occhi attenti. Si volse, disse più forte, con severità: — Ma quelli che restano, anche con gli imbecilli faranno i conti. Siamo vicini alla paga, appena verrà la buona stagione. Ai tedeschi e ai fascisti non gli rimane più niente — . Il suono ruvido del suo dialetto s’allargava nel silenzio. — Disse ancora: — Mi sono sbagliata. Gli rimane la paura » (Renata Viganò, L’Agnese va a morire)
All’inizio degli anni Trenta, Leni Riefenstahl sceglie le cime placide del Cadore per ambientare il suo primo film da regista, La bella maledetta, uscito sugli schermi tedeschi pochi anni prima del cruciale incontro con Adolf Hitler, che avrebbe fatto di lei uno dei principali ingranaggi del cinema di propaganda nazionalsocialista. Ma la geografia inganna: Riefenstahl ambienta, sì, la pellicola nelle placide valli ampezzane (come viene mostrato all’inizio del film nell’evocare un’antica leggenda di quei luoghi[1]), ma il film viene girato altrove, fra il Canton Ticino e le Dolomiti del Brenta. Benché il film sia stato delocalizzato— si presume per ragioni pratiche, legate alle condizioni materiali delle riprese— le vallate dolomitiche restano associate all’apprendistato cinematografico di Riefenstahl, profondamente influenzata dai film di montagna di registi tedeschi della generazione precedente. I viaggi alpini della cineasta sono, del resto, un elemento cruciale per ricostruire il suo tracciato biografico e segnano l’inizio di un percorso di ricerca necessario per l’evoluzione della sua cinematografia.
È in quelle stesse valli, sulle quali si stagliano maestosi il monte Cristallo, le tre cime di Lavaredo e il complesso dell’Antelao[2], che si è consumata l’esperienza resistenziale di Giovanna Zangrandi, raccontata attraverso la forma diaristica ne I giorni veri, uscito per la prima volta nel 1963 con Mondadori e ripubblicato più di recente per la casa editrice Ibs. Il diario di Zangrandi è una narrazione scabra e svelta della sua esperienza come partigiana sulle montagne cadorine, in un territorio di frontiera dove la Resistenza si è consumata sui crinali e nelle grotte alpine, al gelo dell’inverno. La scelta di raccontare i « giorni veri » è una scelta rivendicata dalla stessa autrice: « persone, luoghi, avvenimenti, parole riferiti in questo diario sono veri, non si tratta di una ricostruzione romanzesca… ». Il nome della protagonista del diario è quello assunto dalla partigiana Zangrandi, ovvero Anna, staffetta nella brigata « Pier Fortunato Calvi» in zona Piave, di cui il lettore può seguire gli spostamenti fra le valli dell’ampezzano, in una toponomastica sempre precisata che ci permette di ricostruire una cartografia possibile dei suoi lunghi mesi di clandestinità.
La storia di Zangrandi inizia però più a sud, a Galliera, in provincia di Bologna, nel 1910. Dopo il diploma al liceo classico Galvani (che le ha dedicato un’aula alcuni anni fa) e la successiva laurea in Farmacia, Zangrandi (il cui vero nome è Alma Bevilacqua) si trasferisce a Cortina, dove insegna chimica e allena la squadra di sci, entrando nel locale movimento di resistenza a partire dall’8 settembre. Se ci si sposta qualche chilometro a est di Galliera, nello stesso decoro piatto fatto di valli, canali e paludi, ci si ritrova negli stessi luoghi di un’altra Resistenza, quella di Renata Viganò, che fu partigiana nelle valli del comacchiese col nome di battaglia di Contessa. Viganò, militante comunista e compagna dello scrittore Antonio Meluschi, non racconta la propria personale esperienza di lotta, ma sceglie piuttosto di dare corpo a un personaggio fittizio, Agnese, protagonista dell’Agnese va a morire, pubblicato nel 1949 da Einaudi, con il favore di Natalia Ginzburg, che rimase impressionata dal romanzo di un’autrice della quale nessuno aveva mai sentito parlare.
Le esperienze di lotta partigiana di Viganò e Zangrandi ci sembrano quasi antipodiche (pianura vs. montagna, per esempio), così come antipodiche sono le forme testuali in cui si è manifestato il racconto della loro resistenza (« giorni veri » vs. una narrazione fittizia che da quei « giorni veri » trae spunto). Non vi è nemmeno un’affinità politica fra queste due vite partigiane: più impolitica (all’apparenza) quella di Zangrandi, che non lascia trasparire chiaramente l’adesione a una particolare linea ideologica. Marcatamente politica quella di Viganò, che chiarisce la propria fede comunista nel tratteggiare il personaggio di Palita e, elemento forse più significativo, nel descrivere l’apprendistato politico di Agnese[3]. Il suo personaggio, una lavandara, sembra infatti iniziare a capire, nel tempo lungo della clandestinità e della costruzione di una comunità partigiana, le « cose da uomini » dalle quali si era sempre tenuta lontana. Una presa di coscienza che si costruisce attraverso un’abile costruzione retorica di domande sulle tante forme in cui si manifesta l’ingiustizia e a cui segue una risposta lapidaria ed essenziale: « i ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri », formula che riassume una presa di coscienza ideologica più profonda, fondata su precise dinamiche di classe.
Adesso, invece, potrebbe parlare con Palita. Sapeva molto di più. Capiva quelle che allora chiamava « cose da uomini», il partito, l’amore per il partito, e che ci si potesse anche fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta, una forza istintiva, per risolvere tutti gli oscuri perché, che cominciano nei bambini e finiscono nei vecchi quando muoiono. – Perché non posso avere una bambola? – Perché le ragazze dei signori vanno a ballare con un vestito nuovo e io non posso andarci a causa del vestito vecchio? – Perché il mio bambino porta le scarpe solo la domenica? – Perché mio figlio va a morire in Africa e quello del podestà resta a casa? – Perché non potrò avere un funerale lungo, con i fiori e le candele? – Lei adesso lo sapeva, lo capiva. I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri, e ignoranti, e umiliati. I ricchi guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle. Lei, quando andava per il bucato, i signori del paese la salutavano appena, la lasciavano sulla porta. E non ci si azzardava a dir niente, per paura di sbagliare, di far ridere, di perdere anche il pane di tutti i giorni. C’era però chi diceva qualche cosa: il partito i compagni, tanti uomini, tante donne, che non avevano paura di niente. Dicevano che così non poteva andare che bisognava cambiare il mondo, che è ora di farla finita con la guerra, che tutti devono avere il pane, e non solo il pane, ma anche il resto, e il modo di divertirsi, di essere contenti, di levarsi qualche voglia. (pp. 165-166, ed. Einaudi)
Malgrado le differenze sostanziali che le caratterizzano, le opere di queste due scrittrici partigiane (intorno alle quali Meris Gaspari, insegnante del Liceo Galvani, ha compiuto negli scorsi anni un encomiabile lavoro di ricerca e di divulgazione[4]) possono essere strumenti di lavoro utilissimi in classe, tanto alle medie quanto alle superiori. È stato così per me, nella realizzazione di laboratori sulla Resistenza in numerosi istituti scolastici francesi, insieme a insegnanti di lingua italiana desiderosi di approfondire tale argomento. I laboratori, che si tengono da alcuni anni nella regione di Parigi, hanno coinvolto alcune centinaia di studenti, con i quali si sono approfonditi autori e autrici della Resistenza. Viganò e Zangrandi hanno ovviamente fatto parte di questo corpus, insieme a Bassani, Fenoglio e Revelli.
In primo luogo, la scelta di proporre agli studenti un percorso letterario su Viganò e Zangrandi nasce dall’esigenza di ridefinire il canone e, allo stesso tempo, le pratiche di trasmissione del racconto resistenziale. La scuola italiana deve ancora fare i conti con un canone coloniale e maschile, in cui la scrittura delle donne trova raramente posto. La marginalità delle autrici nei programmi di italiano non è una questione nuova ma anzi è stata sollevata da più parti nel corso degli ultimi decenni. Purtroppo è sufficiente a sfogliare i programmi di italiano delle quinte di un qualsiasi istituto superiore per capire come si sia fatto molto poco per invertire questa tendenza, soprattutto in termini di formazione dei docenti e di progettazione dei percorsi antologici.
Affrontando i testi di Viganò e Zangrandi, si possono allo stesso modo ridefinire le pratiche di trasmissione della memoria della Resistenza, aprendo significativamente il discorso ad altre soggettività: le donne, per l’appunto, gli stranieri (che hanno partecipato alla resistenza in Italia) e gli omosessuali (su cui negli ultimi anni si sono accesi riflettori importanti, un esempio è il graphic novel di Colaone e De Santis, In Italia sono tutti maschi, oltre ai testi di storici come Lorenzo Benadusi). Proporre un canone aperto alle scritture femminili e, allo stesso tempo, dare spazio a una nuova narrazione della resistenza, attenta alle soggettività marginali o ai protagonisti sommersi o indiretti del movimento antifascista, sono due obiettivi che possono combinarsi efficacemente con lo studio delle due opere di Viganò e Zangrandi, che fanno luce sulla resistenza delle donne, in un discorso che intreccia storia, politica e intimità.
Lo studio di un’autrice come Viganò permetterà anche di estendere il discorso verso nuove direzioni e approfondimenti. In primo luogo, verso il panorama intellettuale bolognese dell’immediato dopoguerra, dove si staglia l’appartamento di Viganò e Meluschi in via Mascarella, luogo di ritrovo imprescindibile per la cultura antifascista e comunista cittadina, dal quale passeranno, fra gli altri, Togliatti e Pasolini. E poi un discorso sulla storia dell’editoria italiana, mostrando ad esempio agli studenti un documento interessante come la lettera (fig. 1) in cui Natalia Ginzburg annuncia a Viganò il proprio parere favorevole alla pubblicazione dell’Agnese, una fonte d’archivio che consente di introdurre in classe un argomento come la politica editoriale di Einaudi nel secondo dopoguerra e il ruolo (anche ideologico) svolto dalla casa editrice nell’Italia del dopoguerra per la diffusione memoria della Resistenza[5].
L’altro elemento che merita di essere discusso in questa sede e che accomuna entrambe le autrici è però di carattere politico e riguarda la preoccupazione, manifesta in entrambe le opere, per il futuro. I riferimenti al dopo sono ricorrenti nella letteratura resistenziale che si sviluppa nell’immediato dopoguerra, in autori come ad esempio Pavese (La Luna e i falò) o Bassani (Il racconto « Una lapide in via Mazzini » nelle Cinque storie ferraresi), fra gli altri. Eppure, nelle opere di Viganò e Zangrandi questa preoccupazione per il dopo sembra prendere una direzione nuova, frutto di un’elaborazione politica retrospettiva che le accomuna. A partire da questa linea di discussione— il tema del futuro— è possibile costruire in classe un discorso diverso, forse più innovativo, sull’antifascismo politico, un discorso che ci permetta di evitare gli approcci semplificatori ed eccessivamente moralistici o anche l’ossessione per la testimonianza che in alcuni casi ha caratterizzato la didattica della resistenza e dei traumi novecenteschi. Basandoci su questi testi letterari, infatti, sarà possibile sviluppare un discorso pienamente politico, che ci consenta di problematizzare alcuni aspetti di un processo storico e, allo stesso tempo, sottolineare la portata politica di due operazioni letterarie come quelle di Zangrandi e Viganò.
Tale esigenza viene espressa anche dalla stessa Zangrandi che attribuisce al suo diario una dimensione pedagogica (rivolgendosi ai « giovani ignari », un riferimento che può ricordare l’analfabeta di Vallejo ripreso poi da Morante nel suo esergo de La Storia) e politica.
Ai giovani ignari, infarciti di scolastiche storie di medievali guerre, re e date, si deve pure raccontare questa nostra storia di ieri, questa Resistenza miracolosamente nata in giorni di annientamento e subito cresciuta, divenuta vasta, pura e pulita nelle ore dell’azione, poi amaramente inquinata dopo la guerra da interessi, speculazioni, accuse e sporcizie (lo sapevamo anche noi semplici, che sarebbe accaduto; vedansi le parole del piccolo Sergio nelle ultime righe). Ai giovani era dovere chiarire che sì, la Resistenza ebbe caratteri risorgimentali, ma anche una sua tipica nuova caratteristica: fu più vasta, spontanea, popolare, non sorse solo dai salotti, ma tanto più dalle cucine, dai casolari, dalle fabbriche. Fu un movimento che sul filo antico della parola Libertà affiancò allora mirabilmente intellettuali e masse e deve tanto alle donne.
Il testo di Zangrandi, che ha i crismi di un discorso programmatico, non tralascia di fare riferimento alla resistenza « amaramente inquinata da interessi, speculazioni, accuse e sporcizie ». Una presa di posizione netta, che si collega all’opera giornalistica svolta da Zangrandi nell’immediato dopoguerra, quando anche nelle valli cadorine e ampezzane molte persone colluse con i tedeschi e con il potere fascista tentarono di rifarsi una verginità e si dichiararono antifascisti pur non essendolo mai stati.
L’amaro discorso di Zangrandi entra in risonanza con uno dei discorsi più incisivi dell’Agnese, da cui filtra una lettura politica tutta rivolta al futuro, a « quelli che restano » e che dovranno fare i conti con gli « imbecilli », ovvero con coloro che hanno sostenuto il regime di Salò e hanno difeso i tedeschi, giustificandone le azioni violente e le rappresaglie, citate in rapida successione (« E sono stati buoni quando hanno bruciato X…?[6] E fucilato quei dieci a F…? E gli altri che hanno ammazzato? E se adesso ci mitragliassero tutti? »). Agnese si confronta aspramente con alcuni italiani che giustificano il comportamento dei tedeschi e assegnano la colpa delle rappresaglie ai « ribelli », parola che viene immediatamente capovolta, specificando come si tratti di « compagni combattenti, partigiani, non ribelli ». Un capovolgimento che serve a riappropriarsi del lessico della lotta, poiché l’espressione « ribelli » è quella comunemente utilizzata da tedeschi e repubblichini per definire i resistenti. Siamo nella parte conclusiva del romanzo, poco prima della morte, annunciata fin dal titolo, di Agnese.
L’Agnese disse : — Sì, — anche con la testa, si allontanò subito dalla donna, concluse, fregando una contro l’altra le sue palme dure: — I ribelli muoiono per gli imbecilli. Le fecero largo, lei camminò fra due file umane di stupore, prigioniera di tutti quegli occhi attenti. Si volse, disse più forte, con severità: — Ma quelli che restano, anche con gli imbecilli faranno i conti.
Siamo vicini alla paga, appena verrà la buona stagione. Ai tedeschi e ai fascisti non gli rimane più niente — . Il suono ruvido del suo dialetto s’allargava nel silenzio. — Disse ancora: — Mi sono sbagliata. Gli rimane la paura.
Il romanzo di Viganò è in alcuni tratti un’amara riflessione retrospettiva sugli italiani che hanno collaborato con i fascisti e i tedeschi, come per esempio le figlie di Minghina, la vicina di casa di Agnese e Palita. Gli « imbecilli[7] » sono qui il cuore della riflessione di Viganò: con loro, nel dopoguerra, « quelli che restano » dovranno fare i conti e dovranno convivere per ricostruire il Paese e per preparare la « buona stagione » che si annuncia. O forse, in una prospettiva più cupa ma realistica, fare i conti con gli imbecilli significa scegliere la strada della vendetta, identificare i nomi e i volti dei colpevoli per far trionfare la giustizia. Questa « paga » assomiglia a una vera e propria resa dei conti e Agnese mostra di essere pronta, quando osserva il volto di una dei tanti imbecilli che la circondano.
« Niente, – disse l’Agnese. – Dica pure. Volevo solo vederla in faccia – »
Le ultime pagine dei Giorni veri, allo stesso modo, sembrano innescare ulteriori riflessioni sul futuro che si sono già potute, almeno carsicamente, cogliere in precedenza in un dialogo fra due personaggi, Leo e Lepre.
« Passerà la guerra e forse capiremo meglio; certo io sono italiano fino all’osso, antitedesco, sarò partigiano fino alla fine »
« Così siamo » dice Leo « bisogna ucciderne di tedeschi e fascisti, pulire, poi di politica si capirà. »
« Forse dopo capiremo meglio; adesso non so ancora » riprende Lepre « infinocchiati una volta, credi meno.»
La fine del diario di Zangrandi corrisponde con la fine della guerra e con i giorni nuovi del dopo. A testimoniarlo è la descrizione del centro di Pieve, finalmente liberata: davanti agli occhi di Anna passano « una maestra elementare con una coccarda » (con la sua « innocente rettorica », scrive Zangrandi) e poi l’immagine di un « pompiere tutto fuligginoso (…) al balcone del Palazzo della Comunità » per esporre la bandiera italiana, « e veramente fa piacere vederla ». La scena si conclude con un altro simbolo preciso, il suono della campana dell’Arengo, riferimento diretto all’autogestione comunale e, più precisamente, all’esperienza politica tardomedievale della Magnifica comunità di Cadore: quel suono richiamava infatti in adunanza i deputati del territorio cadorino, eletti da tutti i borghi della valle.
Il simbolismo patriottico di questa scena scena conclusiva, un tripudio di suoni, immagini di coccarde e bandiere, lascia posto alla preoccupazione per il futuro, espressa dal personaggio di Sergio, che dichiara «Adesso comincia il casino, vedrai che razza di casino ci impiantano». E di nuovo il riferimento al casino da parte della narratrice Anna, ma con una dichiarazione netta, basata su due azioni pienamente programmatiche e operative: orientarsi e continuare a fare.
Si va giù a passo per i vicoli, via dalla piazza, estranei, con uno stomaco che deve ingoiar qualcosa e un barlume di pensiero che domani tenterà di orientarsi in questo casino, per continuare a fare quel che volevano i morti.
È racchiusa in questa formula conclusiva tutta la densità politica del lavoro letterario di Zangrandi. « Continuare a fare quello che volevano i morti » è un’espressione estremamente problematica, che può essere discussa in classe, anche per proporre un percorso didattico che non si limiti a considerare il movimento partigiano come un movimento impolitico o apolitico, ma, al contrario, per mettere in evidenza la forte connotazione politica del movimento stesso, in larghissima parte costituito da brigate socialiste e comuniste. La narrazione di una Resistenza « nazionale », di un patriottismo privo di sfumature ideologiche, ha difatti tentato di nascondere una realtà inequivocabile: i partigiani combattevano per la libertà ma pure per un preciso modello di società, diverso, nella sostanza, da quello instaurato negli anni del successivo dominio democristiano, in un mondo « soffocato nell’adipe dei vari miracoli economici ».
L’autrice non mette in chiaro cosa effettivamente volessero i morti: sta a noi capirlo, aggrappandoci a questo « barlume di pensiero », a queste tracce di memoria soffiate via fra i monti del Cadore e le valli dell’argentano.
Sta solo a noi impostare, con le parole e gli strumenti di cui disponiamo, un discorso resistente che consenta agli studenti (e ovviamente anche a noi) di orientarci nuovamente in questo casino, lasciandoci alle spalle la sterile retorica di questi giorni, per continuare davvero, in forme diverse e sempre nuove, a fare quello che volevano i morti. Perché sta stretta nei loro pugni, come ci ricorda il poeta[8], la giustizia che si farà.
Borca di Cadore (estate 2018) – Nantes (aprile 2020)
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Sig.a Renata Viganò
Via Mascarella 63-2
Bologna
Torino, 27 ottobre 1948
Cara Signorina Viganò,
il suo romanzo, l’Agnese va a morire, è molto bello. Il dattiloscritto era sul mio tavolo da un pezzo, senza nessuna lettera accompagnatoria: io avevo un mucchio di manoscritti, ed ho pescato su a caso il Suo dal mucchio. Un bel romanzo. Tra i migliori romanzi partigiani che ho letto.
La Casa Editrice Einaudi stamperà l’Agnese nella collana narrativa chiamata «I coralli». A giorni Le manderemo il contratto. Mi scriva una lettera, e mi racconti un po’ chi è Lei, cos’altro ha scritto, se è vecchia o giovane. Questo per soddisfare la mia curiosità personali. Più tardi, quando il romanzo uscirà, mi dovrà mandare una fotografia e una nota biografica da includere nel libro.
Molti amichevoli saluti,
Natalia Ginzburg
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[1] La leggenda è, presumibilmente, stata inventata di sana pianta da L.R.
[2] Dove Zangrandi costruisce un rifugio ancora esistente, l’Antelao, per l’appunto.
[3] Benché la scelta di aderire alla Resistenza, per Agnese, sia la reazione a un atto di violenza contro un gatto, vittima incolpevole dell’atto gratuito di un soldato tedesco che lo colpisce con una raffica di proiettili. Si tratta senz’altro di un altro elemento da approfondire in classe.
[4] E a lei va un grande ringraziamento per il prezioso lavoro di ricerca archivistica svolto su Zangrandi e Viganò.
[5] Discorso interessante anche per noi insegnanti e ricercatori, poiché a partire dagli anni Settanta la scelta editoriale di Einaudi sull’Agnese va a morire è piuttosto esplicita: il romanzo di Viganò viene inserito nella collana « Per la scuola media », assumendo una funzione significativa dal punto di vista pedagogico. Un breve sondaggio, privo di alcuna scientificità, fra alcune delle mie conoscenze nate alla fine degli Anni Sessanta e negli anni Settanta, mi conferma come soprattutto in Emilia-Romagna il testo di Viganò sia spesso stato l’oggetto di studio approfondito, in terza media, magari accompagnato dalla trasposizione cinematografica di Giuliano Montaldo, con Girotti e Thulin (1976). Il sottoscritto, nato a metà degli anni Novanta, proprio su Viganò e Agnese scrisse il suo tema di terza media (era il 2008).
[6] Altro elemento che distingue l’Agnese dai Giorni: nel romanzo di Viganò è assente ogni traccia toponomastica, per una precisa scelta dell’autrice che ritiene sia superfluo inserire riferimenti precisi, al fine di dare alla resistenza di Agnese un carattere universale, non limitato a un solo ambito geografico. Ambito che ci è comunque noto: le valli di Comacchio, probabilmente il lembo meridionale di quella pianura, tra Alfonsine, Argenta e Lavezzola.
[7] Anche la scelta di utilizzare un’espressione come « imbecilli », che risuona in me nella tracotanza del dialetto argentano di un’Agnese in carne e ossa, ridimensiona la gravità di una scelta di questo tipo, eliminando, almeno all’apparenza, i significati politici che possono essere attribuiti al collaborazionismo e al giustificazionismo nei confronti dei soldati invasori.
[8] Fortini, nel Canto degli ultimi partigiani.