Antonio Gramsci è noto per essere stato uno dei più importanti intellettuali e militanti politici italiani del Novecento. Una notorietà che lo porta ad essere forse l’italiano più tradotto e citato al mondo. Il tutto a partire da una vita che per la gran parte è stata appartata e “confinata”, prima nella provincia sarda dove nacque e passò la giovinezza (1891-1911), poi nelle carceri fasciste, dove trovò, dopo 11 anni di prigionia, la morte (27 aprile 1937). Solo un apparente paradosso, perché Gramsci, nonostante questa distanza fisica dalla vastità del mondo, seppe rilevarne, come un sismografo, la complessità. Suo strumento principe d’analisi e di lotta politica fu la parola. In particolar modo quella letta e quella scritta. Quella dialettale e quella colta. Quella tradotta e quella studiata fino alle sue origini più lontane. Quando non quella inventata, per meglio aderire alla pelle della realtà. Spesso per svelarne le contraddizioni interne e i meccanismi di oppressione.
La Fondazione Gramsci Emilia-Ronagna ha in questi giorni allestito un’installazione all’Istituto Aldini Valeriani che presenta una selezione del lessico gramsciano fatta, nel corso di diversi anni, dal poeta e saggista Edoardo Sanguineti (poi raccolte nel volume Schede gramsciane, Utet 2004). Sanguineti (1930-2010) è stato un vero e proprio collezionista di parole – un “lessicomane”, per sua stessa ammissione – e dedicò a 139 lemmi di Gramsci una scheda specifica, in grado di ricostruire il contesto nel quale le parole dell’intellettuale sardo – spesso strane, impreviste e sarcastiche; persino ironiche – sprigionavano la loro potenza espressiva, indagatrice e trasformatrice. Oltre che sverlare la poliedricità e la complessità della personalità di chi quelle parole usò e inventò.