La rappresentazione di un preside, sgradevole, come si conviene nell’immaginario che accompagna questa figura. Oggi non si chiamano più così bensì dirigenti scolastici, ma la sostanza non cambia.
Però, nel racconto filtra, nel finale, anche una certa nota pietosa. In realtà, questo brano viene proposto quasi come un omaggio a chi, di questi tempi, vive, e chi l’avrebbe immaginato, tra rimbrotti e ambasce.
V. Cerami, A scuola dai furbi, in id., La gente, Torino Einaudi, 1993, pp. 46 – 50
Alla scuola media Edmondo De Amicis erano spariti i soldi che gli alunni avevano raccolto per i poveri del Terzo Mondo.
Un alunno, infilatosi di nascosto in segreteria, aveva trafugato dal cassetto della professoressa Albizzati, l’organizzatrice della colletta, il gruzzolo. Non si trattava che di poche lire visto che la scuola sorgeva al centro di un quartiere di spiantati, dove anche l’uomo più ricco portava le pezze al culo. Tuttavia il reato era di quelli gravissimi, gettava discredito sull’intero Istituto: bisognava assolutamente individuare il colpevole, isolarlo ed esibirlo come una rarità, come l’eccezione che conferma la regola. Il preside in persona prese in mano la delicata questione e come prima mossa ordinò di formare un gruppo che raccogliesse da tutte le classi gli scolari più discoli: – Tra costoro, sicuramente, si nasconde il piccolo criminale -. Lui stesso si sarebbe seduto sulla tolda di una simile galera.
E così fu fatto. Ogni insegnante, con un bel sospiro di sollievo, si liberò dei suoi delinquentelli consegnandoli nelle grinfie del preside. In fila per due o per tre, le mani nelle saccocce, la faccia strafottente, i ragazzini terribili vennero riuniti nel corridoio e accompagnati in un’aula deserta. Il preside entrò e li fece sedere squadrandoli dall’alto in basso da dietro le lenti rotonde. Poi, quasi sorridente, si sedette, s’artigliò con le dita ai pomelli della sedia e con voce lieve disse: – Ragazzi, siete i più cattivi della scuola e sicuramente il ladro è tra di voi. Io lo scoverò, potete starne più che certi. Ho un dono che neanche immaginate. Mi basta guardarvi negli occhi, uno per uno. Cominciamo da te, come ti chiami? – Quello del primo banco s’alzò: – Dindini Alfonso! – Il preside gli puntò gli occhi negli occhi e dopo un attimo scrollò la testa: – Tu sei troppo scemo, te ne puoi tornare nella tua classe, vai! – Il ragazzino, sorpreso, rimase fermo come uno stecco vergognandosi di se stesso, poi scappò via di corsa sbattendo la porta dietro le spalle. – Era troppo scemo, – ripeté agli altri il preside, – voi non ve ne siete accorti ma tremava un po’, e chi trema non è capace di rubare neanche un bruscolino!
Dopo una buona oretta nella quale passò in rassegna i bambini, il preside ne rispedì in classe almeno la metà, marchiandoli tutti come scemi. Poi, con un’aria nuova, un sorriso inaspettato, si rivolse ai restanti puntando il dito: – Siamo rimasti soli. E adesso che siamo soli voglio dichiarare la mia simpatia per chi tra di voi ha avuto il coraggio di portarsi via quei soldi. È sicuramente un tipo in gamba se non è riuscito a farsi scoprire. Questo lo dico sinceramente: in qualsiasi modo vada a finire questa brutta storia, il colpevole sappia fin da ora che ha tutta la mia ammirazione. Mi tolgo tanto di cappello davanti a colui che non si è lasciato commuovere e ricattare dalle belle parole sul Terzo Mondo. Tuttavia io devo difendermi, e questo voi lo capite benissimo: che figura ci faccio con il Provveditore? Penserà che io sto mettendo su una scuola di ragazzi insensibili ai grandi problemi del mondo. Sì, perché dovete sapere che per il Provveditore chi ruba i soldi destinati ai bambini che muoiono di fame é un criminale molto più criminale degli altri. Ma io so che non è così. Alla vostra età ne ho fatte anche di peggio, e non mi hanno mai scoperto. Ero il più furbo. E ora eccomi qua: riverito e rispettato da tutti. Ho capito che solo i furbi si fanno strada a questo mondo.
[…]
Dunque, chi ha preso i soldi lo dica. Sono pronto a stringergli la mano e a dirgli: sei il migliore!
Si fecero avanti sette ragazzini, tutti insieme. Ma subito, senza neanche farli parlare, il preside li rimandò nelle loro classi. E disse ai quattro rimasti: Tutti scemi! Ci sono cascati come asini! Quelli non hanno il coraggio neanche di rubare una gallina! Erano pronti a dirmi di essere stati loro, ma di aver già speso il danaro. Volevano farsi grandi, poverini!
I quattro scolari rimasti fissavano l’uomo senza battere ciglio. – Dunque, – proseguì il preside, – siete quattro. Uno di voi è il più furbo, vale a dire il migliore, vale a dire il ladro! E siccome so con chi sto parlando e non voglio perdere altro tempo, prego quelli che non c’entrano niente di lasciarmi solo con lui, debbo regolare i conti con chi m’ha fatto questo brutto scherzo. La sfida è tra noi due! Lasciatemi solo con chi ha rubato quei soldi e vedrete se lui è più furbo di me!
Dopo un lunghissimo silenzio due scolari si alzarono lentamente e se ne andarono senza dire neanche una parola. Il preside si aprì in uno sguardo pieno di soddisfazione e anche di divertimento e disse: – Dunque, uno di voi due s’è portato via i soldi destinati ai bambini del Terzo Mondo! Come vi chiamate? – Uno rispose: – De Santis Umberto – e l’altro: – Menicucci Ivo -. L’uomo li fissò a lungo senza muoversi: lo sguardo inespressivo dietro le lenti, la stempiatura frastagliata come una costa della carta geografica. Continuò: – Uno di voi è uno scemo mentre l’altro è un furbo di quattro cotte. A me basta scoprire chi è lo scemo, e scoprire gli scemi, credetemi, è molto facile.
[…]
De Santis e Menicucci si scambiarono occhiate velocissime, ma nessuno dei due levò il sedere dal banco. Il preside allora provò a spingere il pedale: – Posso sempre dire che i ladri siete voi. State nella stessa classe? – Sì, – rispose De Santis, – seconda B!
[…]
– Uno di voi, – prosegui il preside, – è il ladro. O forse tutti e due. Ma statene certi: confesserete senza neanche accorgervene! – Solo a questo punto De Santis apri bocca: – Signor preside, io lo so chi ha rubato quei soldi! – E il preside: – Ah, sì? Anch’io lo so. Vediamo un po’ se pensiamo alla stessa persona! – E De Santis: – Io non glielo posso dire perché io la spia non la faccio! – Il preside sorrise: – Sei tu, confessa! – Si sbaglia signor preside -, rispose De Santis. E l’altro ragazzino, Menicucci, di rincalzo: – E adesso non dica che sono stato io. Io non c’entro proprio niente! – Il preside allora ordinò al piccolo Menicucci di lasciare l’aula: – Sei scemo anche tu, vattene! – Il ragazzino scappò via come un topo. De Santis Umberto e il preside rimasero soli. L’uomo ebbe un altro dei suoi crudeli sorrisi. Ma quel sorriso gli rimase nella gola quando De Santis rivelò – Il ladro se n’è andato da un pezzo. È stato tra i primi a filarsela, uno di quelli che tremavano tanto e che lei ha chiamato scemi! Tutta la scuola lo sa che è stato lui. Solo lei, signor preside, non l’ha capito.
L’Istituto, purtroppo, non si poté liberare dall’infamia e il Provveditore andò su tutte le furie. Il colpevole di quell’abominevole furto non fu mai scovato, ma nella mente del preside aveva un nome e un cognome ben precisi: De Santis Umberto, seconda B.