Un gruppo di lavoro provvisoriamente costituitosi all’interno del Laboratorio di Analisi Politica coordinato da Carlo Galli ha prodotto questa riflessione:
A CURA DEL GRUPPO DI LAVORO thomas CASADEI, marialaura LANZILLO, E ALTRI
coordinato da carlo GALLI
1) Introduzione
I processi di globalizzazione, che per definizione interessano tutti i livelli della civile convivenza – e quindi anche il livello municipale, e forse questo più di ogni altro –, generano tre miti, che devono essere decostruiti perché sono rappresentazioni ideologiche, in sé erronee, e perché sono fra i principali strumenti dell’egemonia culturale della destra populista. Il mito dell’identità (in questo caso dell’identità urbana), il mito della sicurezza, il mito del migrante come pericolo per la sicurezza e per l’identità.
È evidente che ogni città di una qualche importanza ha assunto nel corso della storia alcune caratteristiche che la rendono riconoscibile, ai cittadini e a chi cittadino non è. Ma si tratta di un insieme di caratteristiche che si sono sovrapposte, e anche contraddette (si pensi alla Bologna papalina e alla Bologna partigiana), nel corso dei secoli e che sarebbe improprio, semplicistico e folkloristico, definire ‘identità’. Quelle caratteristiche sono state, ciascuna, una risposta a sfide storiche reali, e non manifestazioni di un’identità preesistente, quasi ontologica. Oggi, davanti a sfide del tutto inedite, la ricerca dell’identità urbana è solo un fattore psicologico di massa, o una costruzione ideologica politicamente manovrata. È uno strumento di difesa e di attacco.
La globalizzazione genera insicurezza. E questa sensazione si fa più marcata davanti al fenomeno dei migranti, inedito e sconvolgente per gli ovvi motivi che in seguito verranno chiariti e analizzati. Ma lungi dall’essere in sé un fattore di insicurezza, una minaccia alla nostra identità, il migrante è proprio colui che sperimenta l’insicurezza sulla propria pelle, perché è precarizzato e clandestinizzato, vessato e marginalizzato, come nessun’altra figura nel nostro panorama sociale. In realtà, l’insicurezza dei cittadini, che si condensa tutta sul migrante, ha ben altra origine: è l’insicurezza economica, è l’insicurezza civile, è l’insicurezza della democrazia, è l’insicurezza per l’istruzione e per il futuro nostro e dei nostri figli. Insicurezze, queste sì, reali, che nascono dal mancato soddisfacimento di bisogni, dalla crisi di soluzioni amministrative e istituzionali un tempo valide ma oggi obsolete. È davanti a questi problemi complessi che si reagisce – istintivamente, ma anche in seguito a massice forme di propaganda e di discorso pubblico– con la creazione del mito dell’identità minacciata, del mito della minaccia concreta, e del mito della sicurezza. In particolare, questa come tale non esiste in quanto diritto. Esiste, certo, l’obbligo della legalità, per tutti e a tutti i livelli; ed esiste, forse, una speranza di sicurezza che nasca dal riconoscimento e dal soddisfacimento dei diritti (culturali e sociali) di tutti (cittadini e migranti).
Quindi, il tema dell’identità di Bologna diventa il tema non di come regredire a un’età dell’oro in cui si era tutti felici e sicuri, e neppure di come fronteggiare la guerra che gli stranieri ci stanno muovendo; diventa piuttosto il tema di come rispondere alle esigenze dell’oggi e del domani valorizzando il vario e multiforme patrimonio di saperi e di pratiche, di culture e di democrazia, che è l’unica identità possibile (e reale) di Bologna. Non in una fittizia e insensata ‘bolognesità’ ma nell’intelligenza, nella cultura, nell’operosità, nella solidarietà, nello spirito democratico, stanno le caratteristiche di Bologna che vengono oggi messe alla prova, in circostanze nuove. Non in una sua presunta monolitica cultura, ma nella qualità della sua risposta alla sfida del multiculturalismo, non nella difesa nostalgica di un passato che non c’è mai stato, ma nell’innovazione nel solco della democrazia, è da ricercarsi l’identità (se proprio si vuole usare il termine) di una città che deve imparare nuovamente ad aprirsi al mondo, come (ad esempio attraverso l’Università) seppe fare in passato.
2. La questione del multiculturalismo, e il ritardo italiano
Noi tutti viviamo, riflettiamo, agiamo, lavoriamo in contesti che appaiono come nuove configurazioni sociali definite multiculturali. Con questo termine si indica il fatto che le nostre società non tanto sono fortemente diversificate al loro interno (essendo questo una costante della storia umana), quanto non riescono più ad essere rappresentate, e di conseguenza vissute, come se fossero abitate da individui tutti uguali, così come l’ideologia della modernità politica le aveva immaginate, attraverso le forme di costituzione e disciplinamento del soggetto, privato nella sfera pubblica di tutte le sue differenze, ma in cambio dotato di diritti uguali per tutti – secondo l’antropologia politica della cittadinanza che sorregge il paradigma della statualità moderna – e identificantesi nel corpo culturalmente omogeneo della nazione.
La quotidianità dell’esistenza negli Stati europei, gli incontri e le relazioni che ognuno di noi intesse ogni volta che esce di casa, ci ricordano invece che questa forma di autorappresentazione non funziona più. Di fronte al riemergere e alla visibilità di ciò che la modernità aveva cercato di cancellare – i particolarismi, la dimensione comunitaria, le differenze – il pensiero e la pratica politica sono sembrati allora aggrapparsi alle teorie multiculturaliste (di importazione nordamericana, e soprattutto canadese – non va dimenticato che il Canada, che è uno Stato federale, è stato il primo Stato ad adottare nel 1971 con il Multiculturalism Act una politica pubblica dichiaratamente multiculturale, seguito dall’Australia nel 1973, dalla Gran Bretagna negli stessi anni e negli anni 80 dalla maggior parte degli Stati europei), intese quali risposte normative, vale a dire risposte d’ordine offerte alle rivendicazioni di riconoscimento politico e giuridico di specifiche identità culturali che vengono avanzate nella sfera pubblica.
Proviamo brevemente a riflettere a quanti temi, processi sociali, trasformazioni politiche o questioni ci vengono in mente quando pronunciamo il termine multiculturalismo. Un elenco sommario deve necessariamente fare riferimento agli effetti politico-sociali dei processi di migrazione sugli assetti degli Stati occidentali; o al problema del riconoscimento dei diritti collettivi e dei diritti culturali rivendicati da alcuni gruppi in nome di una presunta identità culturale da preservare; ancora, alle tensioni fra la concezione laica dello spazio pubblico e la rinascita delle appartenenze religiose; alle rivendicazioni dei fondamentalismi; al problema della disuguaglianza e della giustizia sociale di fronte alle nuove forme di marginalità e di esclusione; alle questioni inerenti l’integrazione sociale a fronte di un rinnovato spirito comunitario; alla crisi della democrazia rappresentativa; agli effetti dei processi di globalizzazione, che mettono in movimento non solo merci e forza lavoro, ma anche donne e uomini in carne e ossa; alla centralità assunta dall’informazione. La società multiculturale sarebbe dunque la nuova forma dell’organizzazione sociale che le nostre società assumono o stanno assumendo.
Ma l’affermazione che oggi viviamo in società multiculturali spesso viene percepita non come una constatazione di un processo in atto, ma come un problema, perché la società multiculturale sembra essere meno capace di garantire quella sicurezza e quella coesione sociale su cui si era costruita la società civile all’interno della cornice dello Stato-nazione. In questo quadro il multiculturalismo appare come la risposta d’ordine a questa nuova situazione.
Va evidenziato innanzitutto che più che di teoria del multiculturalismo sarebbe più corretto parlare di multiculturalismi: il dibattito politico ha sviluppato infatti una pluralità di modelli (dalla teoria della società a mosaico, alla politica «in dialetto», al modello della salad bowl), tutti di matrice nord-americana e che si costituiscono – non va dimenticato – all’interno di regimi federali. Modelli che cercano di conciliare i principi cardine dello Stato di diritto con le richieste di riconoscimento che provengono da soggetti e gruppi che si sentono non garantiti dall’universalismo giuridico proprio del sistema degli Stati, accusato per questo di eccessiva cecità di fronte alle differenze, neutralizzate dall’universalismo giuridico e dunque di fatto escluse dallo spazio politico. La questione che ha impegnato i governi negli ultimi decenni è stata pertanto quella di tentare di regolare la convivenza fra autoctoni e non, tra maggioranze e minoranze nazionali da un lato e minoranze di migranti dall’altro, di garantire coesione sociale e diritti, di mantenere in efficienza il sistema-Stato.
Se esaminiamo le politiche pubbliche attuate negli ultimi decenni, ci agccorgiamo che gli Stati europei (che, a differenza del Nord-America, per lo più sono Stati con un sistema unitario o al più semi-federale) hanno provato a fare i conti con la questione multiculturale (che in Europa è essenzialmente questione legata ai processi di migrazione più che alle rivendicazioni di diritti da parte di minoranze nazionali nei confronti di maggioranze nazionali) con una pluralità di strategie di gestione di ciò che viene percepito come diversità culturale (o identità culturale). Negli ultimi decenni in Europa abbiamo conosciuto la sperimentazione del modello alla francese di integrazione e di assimilazione all’interno della cittadinanza repubblicana, la politica multiculturale della Gran Bretagna, la «pillarisation» olandese (o tolleranza «autoritaria», vale a dire la segmentazione della società in alcuni segmenti in base alle diverse ideologie o religioni, in Olanda sono tradizionalmente tre i pillars, cattolici, protestanti e social-democratici, a cui si aggiungono in alcune situazioni le comunità immigrate di musulmani), il modello welfarista scandinavo, il sistema di regolazione statale dell’identità del Belgio, fino alle più recenti politiche di «istituzionalizzazione della precarietà» e del «lavoratore ospite», che trattano gli immigrati di cultura diversa da quella nazionale come ospiti, strategie proprie delle politiche sull’immigrazione tedesche e, per certi versi, italiane. In ogni caso, va sottolineato con forza che tanto i modelli teorici quanto le politiche pubbliche indirizzate al multiculturalismo sono tutti oggi profondamente in crisi (dalla Gran Bretagna alla Francia, dall’Olanda al Belgio) e sottoposti a profondi processi di revisione, se non di abrogazione, poiché è diventato evidente in questi primi anni del XXI secolo che più che affrontare radicalmente la novità del presente multiculturale, hanno di fatto offerto una gestione totalmente astratta della presunta identità (culturale, religiosa, sociale, di razza che sia). Come ha ricordato Amartya Sen in un suo importante volume (Identità e violenza, Laterza, 2006), invece che assistere al fenomeno del multiculturalismo siamo in presenza di una forma di monoculturalismo plurale.
L’Italia si distingue per un forte ritardo in questo campo, sia perché l’Italia, che nel corso del XIX e del XX secolo era stata un paese di emigrazione, è tra gli ultimi paesi dell’Europa occidentale ad aver fatto i conti con il fenomeno della migrazione, sia perché l’opinione pubblica ha tardato a prendere in considerazione la questione e, quando l’ha fatto, è stato quasi esclusivamente attraverso la parola d’ordine della sicurezza veicolata dalle forze di destra e assunta in maniera irriflessa dalle forze di sinistra. D’altra parte l’Italia, più che la via di una riflessione politica e dell’implementazione di specifiche politiche pubbliche sui territori (quale è la via seguita da buona parte degli Stati europei), ha scelto la via della regolazione centralistica per via legislativa della questione migrazione, affidando quasi esclusivamente la questione alla gestione del ministero dell’interno e dei suoi rappresentanti sul territorio e/o affidandosi a meccanismi di supplenza istituzionale (esercitata da soggetti vari, quali la magistratura, il volontariato, la scuola, gli enti locali, ecc.), che hanno rivelato la totale assenza di un indirizzo politico, che ha fatto sì che il centro della scena sia stato preso da una retorica ispirata per lo più da forze xenofobe, che ha avuto come esito un modello disciplinare e di controllo della soggettività migrante, fondato sulla sua esclusione dalla cittadinanza.
3. La normativa italiana sull’immigrazione
Quanto alla normativa italiana in materia di immigrazione, le sue successive evoluzioni dal 1990 a oggi manifestano una ratio che subordina l’autorizzazione all’ingresso e al soggiorno alla domanda di lavoro.
Rispetto alla legge Foschi del 1986, la legge Martelli (L. 39/1990) introduce il dispositivo, tuttora vigente, della programmazione dei flussi di ingresso, da definirsi in collaborazione con i ministeri degli affari esteri, dell’interno e del lavoro, e con il CNEL e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. L’introduzione di pene detentive e pecuniarie per contrastare l’immigrazione clandestina, così come l’indicazione dei parametri generali del meccanismo dell’espulsione, indicano la necessità di dispositivi amministrativi capaci di esercitare un controllo efficace sui movimenti dei migranti. Questa logica viene sistematizzata e rafforzata dalla legge Turco-Napolitano (DLgs 286/1998), che risponde alle trasformazioni determinate, da una parte, dalla massificazione dei movimenti migratori verso l’Italia iniziata nel 1991 e, dall’altra, alla ratifica degli accordi di Schengen nel 1993. Il meccanismo fondamentale di controllo rimane la politica dei flussi, rafforzata dalla subordinazione del permesso di soggiorno (p.d.s.) all’esistenza di un contratto di lavoro – o delle condizioni minime di sussistenza in attesa di occupazione garantite dalla figura dello sponsor. La definizione di meccanismi di controllo delle frontiere, di detenzione e di espulsione amministrativa, si è rivelata tendenzialmente inefficace rispetto all’intento dichiarato di contrastare l’immigrazione clandestina, ma ha prodotto i Centri di Permanenza Temporanea (CPT) – formalmente costituiti per facilitare l’identificazione dei migranti e la loro espulsione – e ha introdotto quelle retoriche di criminalizzazione e sicurezza che oggi risultano centrali nelle politiche del centro-destra. Data anche l’inefficacia – o l’efficacia solo parziale – dei meccanismi di espulsione, la clandestinità che queste politiche miravano a contrastare è divenuta in realtà un elemento funzionale allo stesso mercato del lavoro (particolarmente in quei settori, come l’edilizia, il lavoro agricolo stagionale e quello di cura – strettamente dipendenti dall’esistenza di figure lavorative pienamente disponibili e prive di garanzie –).
La legge Bossi-Fini (L. 189/2002) certamente peggiora la Turco-Napolitano, ma si pone in continuità con essa. La figura del «contratto di soggiorno per lavoro» rafforza un dispositivo già presente, attribuendo in più una funzione pubblico-amministrativa ai datori di lavoro privati, investiti della facoltà di autorizzare la concessione del p.d.s. e il suo rinnovo. In questo modo, il «contratto di soggiorno» si traduce in una leva per la precarizzazione del lavoro dei migranti, esposti a una specifica ricattabilità, al di là delle garanzie formali dalle quali, come lavoratori, dovrebbero essere tutelati, determinando così un progressivo impoverimento del lavoro nel suo complesso. L’eliminazione della figura dello sponsor, accanto alla centralità tutt’ora rivestita dalla programmazione delle quote di ingresso, non va considerata solo come una restrizione degli spazi di ingresso regolare sul territorio funzionale all’accentramento del controllo, ma come una parte essenziale dei processi di clandestinizzazione prodotti proprio nel momento in cui si “dichiara guerra” all’immigrazione clandestina.
La Bossi-Fini può essere considerata a pieno titolo un dispositivo di produzione di gerarchie giuridiche, sociali e lavorative: accanto ai migranti della prima ondata, in possesso della cittadinanza, si trovano quelli con una carta di soggiorno a tempo indeterminato, della nuova carta di soggiorno comunitaria per soggiornanti di lungo periodo (5 anni), i titolari di un p.d.s. per lavoro con contratto a tempo indeterminato (formalmente 2 anni), determinato (formalmente 1 anno), per ricerca lavoro (6 mesi), per lavoro autonomo, per ricongiungimento famigliare, per motivi di studio, i cittadini dei nuovi Stati membri dell’UE, le molteplici figure di rifugiati e richiedenti asilo con altrettante limitazioni/concessioni rispetto alla possibilità di lavorare, coloro che sono privi del permesso perché entrati illegalmente o perché lo hanno perso perdendo il lavoro e che, in ogni caso, non hanno alcuna possibilità di regolarizzarsi. Accanto alle figure formalmente previste si trovano poi quelle prodotte dalla prassi amministrativa del rinnovo dei permessi, drammaticamente farraginosa: i migranti possono attendere il rinnovo per mesi, quando non per un anno, e in questo periodo dispongono di una ricevuta postale che attesta l’avvenuta domanda di rinnovo ma rende difficile l’accesso a servizi fondamentali come la sanità e la stessa ricerca di lavoro. Spesso, i permessi sono consegnati già scaduti o in via di scadenza, poiché decorrono al momento della domanda di rinnovo, così che la condizione di “piena regolarità” è divenuta eccezionale.
Se si vuole analizzare la situazione dal lato del servizio pubblico fornito, notevole è il rapporto tra i benefici economici derivanti dalla presenza dei migranti – non solo in termini di incidenza sul PIL – e la qualità della spesa a loro destinata. Il malfunzionamento delle procedure di rinnovo si somma a un costo di 76 € per ogni domanda – cui presto si aggiungerà la tassa sul p.d.s. prevista dal pacchetto sicurezza e destinata non al miglioramento dei servizi ma all’incremento delle politiche di sicurezza, espulsione, controllo dei confini – e al versamento a fondo perduto dei contributi previdenziali. La Bossi-Fini, infatti, prevede che questi possano essere convertiti in pensione solo al compimento dei 65 anni di età, quando i migranti saranno stati costretti a tornare nei loro paesi di origine – e in presenza di un accordo bilaterale che consenta il trasferimento delle pensioni – stipulato, ad oggi, solo con la Tunisia. Sulla base dei dati ISTAT, si stima che la disoccupazione dovuta alla crisi economica determinerà un’emigrazione di ritorno di 20.000 migranti, con un “guadagno” al netto per le casse dello Stato di 200 milioni di euro (http://www.lavoce.info/articoli/-immigrazione/pagina1001762.html).
La Bossi-Fini va dunque considerata come uno strumento di gerarchizzazione e precarizzazione della permanenza dei migranti, uno strumento che, in tempo di crisi, è stato perfezionato dal “pacchetto sicurezza”. Di fronte alla saturazione del mercato del lavoro, i meccanismi di irregolarizzazione determinati dalla disoccupazione forzata (tra il 2008 e il 2009 si parla di 77.000 disoccupati migranti in più, il 12% sul totale a fronte di un’incidenza dei migranti sul mercato del lavoro del 7,5%, secondo i dati ISTAT) muta la funzione dei CPT (ora Centri di Identificazione ed Espulsione, CIE). Questi si inseriscono nel quadro di un accentramento del controllo delle espulsioni – guidato dall’agenzia europea FRONTEX – coestensivo a meccanismi di criminalizzazione (l’introduzione del reato di immigrazione clandestina), alle retoriche della sicurezza e al permesso di soggiorno a punti che, “moralizzando” la permanenza dei migranti in Italia, estende pesantemente il controllo sulla loro condotta. Presi complessivamente, questi dispositivi hanno come effetto di creare una figura lavorativa pienamente disponibile, che trova di fronte a sé ostacoli sempre più difficili da superare se progetta di trasformare la propria presenza in una condizione a tempo indeterminato. Le restrizioni introdotte dal pacchetto sicurezza alla possibilità di ottenere la cittadinanza o di mettere in pratica il ricongiungimento familiare istituzionalizzano ulteriormente la temporaneità della permanenza dei migranti, riducendo al minimo i suoi costi sociali.
4. La crisi economica; quali conseguenze?
Proprio alla luce del legame che intrattengono con i movimenti del mercato del lavoro, i dispositivi legislativi di governo delle migrazioni stanno manifestando, in tempo di crisi economica, la loro funzione e i loro effetti più pesanti. La definizione di una figura lavorativa pienamente disponibile, ricattabile ed espellibile a seconda della contingenza economica rende oggi i migranti – a prescindere alla durata della loro permanenza in Italia e dall’esistenza di progetti di stabilizzazione ormai avviati, come l’acquisto di una casa – fortemente esposti alla clandestinizzazione. Non ci sono dubbi che la crisi economica colpisca tutti, ma agisce sui migranti in modo differenziale alla luce della specificità del loro status giuridico. È sufficiente pensare, ad esempio, alla questione abitativa: la disoccupazione ha posto gli sfratti all’ordine del giorno, ma la presenza di determinate condizioni abitative è, per i migranti, necessaria al rinnovo del permesso, così che oltre al dramma e al disagio di perdere la casa si aggiunge quello della perdita dei requisiti necessari per restare in Italia. Un altro esempio riguarda i migranti in Cassa Integrazione, che spesso, pur essendo in possesso del contratto di lavoro, non dispongono delle condizioni reddituali minime per ottenere il rinnovo del permesso. Si tratta di una situazione che può essere letta all’interno di un generale impoverimento delle risorse per il Welfare – destinato ad aggravarsi con la nuova manovra finanziaria – che produce una competizione tra lavoratori per l’accesso alle risorse che il governo ha potentemente strumentalizzato attraverso discorsi e misure che possono essere senza difficoltà rubricati sotto la definizione di razzismo istituzionale. Basti pensare alle indicazioni, dei sindaci leghisti del nord d’Italia, di escludere i migranti dall’accesso all’edilizia residenziale pubblica, o all’applicazione restrittiva del pacchetto sicurezza inizialmente prevista proprio nella città di Bologna, che avrebbe determinato l’esclusione dagli asili dei figli dei migranti irregolari.
Ma si deve constatare, al tempo stesso, l’inadeguatezza del sistema di Welfare rispetto alle trasformazioni contemporanee del lavoro. L’esempio più significativo – particolarmente per la città di Bologna – è dato dallo status dei lavoratori-soci delle imprese cooperative, nelle quali in larga misura i migranti sono impiegati: poiché non risultano lavoratori dipendenti, non hanno diritto al sussidio di disoccupazione, e ciò fa sì che non possano maturare il reddito minimo necessario al rinnovo del permesso di soggiorno, o che siano ancora più esposti alla perdita delle condizioni necessarie – come la casa – al rinnovo stesso. Si tratta di una produzione di instabilità e di insicurezza nelle condizioni di vita dei migranti che contrasta non solo con progetti di stabilizzazione già avviati ma anche con la realtà ormai consolidata di una nuova generazione nata e cresciuta in questo paese, che ha compiuto il proprio percorso scolastico dell’obbligo, che parla l’italiano correntemente, che ha rotto o radicalmente modificato ogni identità ascritta, ogni originaria appartenenza “comunitaria”, che è davvero presente tra noi e che ambisce a costruirsi un proprio futuro ma che, al compimento della maggiore età, si troverà a fare i conti, nonostante tutto, con l’esposizione alla precarietà giuridica e lavorativa e al rischio di clandestinità e di espulsione determinato dal “contratto di soggiorno per lavoro” e dal razzismo istituzionale.
5. Alcune proposte
a) Il Welfare municipale
Il sistema di welfare classico è andato in crisi senza che sia stata avviata l’istituzione di interventi in favore delle nuove povertà (quali potrebbero essere il reddito minimo di inserimento) e in particolare dell’accoglienza dei migranti (misure di self empowerment, sostegno all’arrivo, ecc…).
Attualmente non esistono neppure politiche di welfare nazionale, specifiche, in favore dei migranti.
Le regioni hanno competenze di indirizzo, e in Emilia-Romagna si finanziano specificatamente interventi “residuali” in favore dei migranti come investimenti in strutture quali centri di accoglienza o progetti pilota; accoglienza e integrazione sono previste all’interno di norme di indirizzo, piani, programmi relativi a politiche sanitarie, scolastiche e formative, edilizie.
Le competenze concrete e dirette di accogliere e “integrare” sono dei Comuni. Si assiste quindi ad una schizofrenia delle competenze: a livello nazionale si legifera sull’immigrazione, a livello locale ci si dovrebbe far carico del problema. Le conseguenze di questa situazione sono di diverso segno:
Deleterie: si generano infatti nuovi assetti di welfare municipale “fai da te” su alcuni temi-chiave come la casa; a questo riguardo sono significativi gli esempi di Comuni ove governano il centro-destra e la Lega Nord (Dovadola e Castrocaro in Romagna) in cui sono stati individuati particolari tempi di residenza e limiti di reddito per l’accesso all’edilizia pubblica o ai servizi municipali da parte dei migranti, facendo passare dunque in secondo piano l’elemento del bisogno;
Positive: si generano buone prassi. Qui se ne possono indicare alcune particolarmente significative con rinvio a qualche link; es. Comune di Novellara, “Progetto nessuno escluso”
http://www.comune.novellara.re.it/servizi/menu/dinamica.aspx?idArea=647&idCat=648&ID=833 .
Sono due facce della stessa medaglia; gli esiti sono molto diversificati, gli interventisono sporadici e mancano di continuità.
Per mantenere la barra ferma su un welfare che abbia come riferimenti i cittadini e non i gruppi bisogna pertanto pensare ad azioni rinnovate che rispondano ai bisogni attuali delle persone, a partire dalle loro condizioni, ovvero da gruppi di bisogni.
L’impoverimento delle risorse destinate al Welfare esige, più in generale, una riforma del welfare; non si tratta solo di un problema di discriminazione dei migranti ma di sostenibilità complessiva – orientata anche da nuovi criteri – di tutti gli interventi nell’ambito di tutte le politiche di welfare: sociali, sanitarie, previdenziali. Il Welfare municipale deve riformare sia i modi sia gli obiettivi dei suoi interventi assumendo come cifra la trasparenza e perdendo i connotati più corporativi; dovrebbe altresì individuare in modo chiaro i livelli minimi di garanzia che intende offrire a tutti i membri delle comunità locali e regolamentarne l’accesso, verificarne l’efficienza e l’efficacia, e chiedere all’ente Regione (e allo Stato) di concorrere per le quote di competenza.
b) Sui migranti in particolare
Bisogna pensare azioni ad hoc per i migranti che progettano il loro futuro sul territorio italiano.
I problemi delle “seconde generazioni” sono la cartina tornasole di esigenze diverse: per “seconde generazioni” è corretto intendere non solo i migranti nati in Italia, ma anche i figli ricongiunti, i minori stranieri adottati e i minori stranieri non accompagnati. Ad una disamina approfondita dei contesti sociali spesso si evince che la discriminazione sostanziale nelle comunità locali o nei gruppi dei pari è addirittura più pesante di quella formale dettata dalle norme sulla cittadinanza: la condizione economica e sociale di appartenenza, in alcuni casi, non pare decisiva.
Sicuramente le barriere burocratiche non aiutano, e procedure come la richiesta della residenza e la carta di soggiorno, potrebbero essere semplificate e soprattutto – entro una nuova concezione della cittadinanza stessa – valorizzate come momento di accoglienza nella comunità (in questo senso dovrebbero acquisire un forte rilievo anche corsi di lingua, di educazione civica e costituzionale, corsi sul codice della strada, attuati magari nell’ambito di spazi istituzionali generatori “di vicinanza” come i quartieri e le circoscrizioni, in stretta collaborazione con il mondo dell’associazionismo e sotto la regia dell’ente comunale).
Fondamentali sono però, soprattutto, i servizi sociali prescolastici, i servizi educativi e socio educativi per minori e adolescenti e la scuola di ogni ordine e grado: la relazione fra le persone, la conoscenza fisica, la convivialità del quotidiano consente la creazione di un mondo comune, a partire dal pluralismo delle culture e degli stili di vita.
c) La casa
La questione abitativa è emblematica e le risposte dell’Edilizia Residenziale Pubblica non sono più al passo con i reali bisogni. Servono risposte abitative più flessibili che siano non solo meno onerose per i migranti ma anche sostenibili per gli enti locali e in sostanza applicabili e accettabili per tutti i cittadini residenti su un territorio.
Un esempio concreto. Una casa popolare potrebbe valere, indicativamente e a prezzi di mercato, 120.000 euro e quando è assegnata è a vantaggio di una famiglia per tutta la vita (si tratta, in sostanza, di un “bene per la vita”, a tempo indeterminato); di norma dunque il bene resta, a canoni bassissimi, anche se le condizioni del bisogno originario mutano (nuclei originari di 5 persone, con solo il padre che lavora, si ritrovano anni dopo ridotti a due sole persone, magari con padre e madre che hanno un’occupazione e i figli che, nel frattempo, sono usciti dal nucleo familiare). Se invece di assegnare 120.000 euro ad una famiglia a tempo indeterminato ci impegnassimo a stipulare per quattro famiglie un contratto di affitto della durata 3+2 anni [criteri del canone concordato] per un valore di circa 6.000 euro l’anno, con la stessa risorsa faremmo fronte ai problemi abitativi di 4 nuclei familiari. Se poi, come avviene nell’ERP, chiedessimo a queste famiglie il pagamento di un canone proporzionale al reddito (e che potrebbe, eventualmente, aumentare in maniera progressiva nel corso del quinquennio), qualora mutassero le condizioni, potremmo ottenere risorse e aumentare la capacità di provvedere all’autonomia abitativa. Qualora tutti e quattro i nuclei non riuscissero a raggiungere l’autonomia abitativa dovremmo reinvestire i 120.000 euro per i loro bisogni – immutati – per un altro quinquennio ma con il vantaggio, consentito da questo approccio, di un momento di verifica e di un potenziale reindirizzo delle risorse.
Questo approccio – che vede l’ente locale come gestore delle risposte al bisogno abitativo – potrebbe consentire il recupero di case sfitte nel libero mercato grazie anche alla garanzia del pagamento dell’affitto (da parte di ogni cittadino, a prescindere anche da come viene percepito in basa alla sua provenienza).
A questa possibilità si accompagna una complessiva architettura di trasparenza ed efficacia nella spesa pubblica legata all’edilizia sociale che può essere riassunta anche con la seguente formula adottabile dall’ente comunale: “anziché spendere sui problemi investire su strumenti per la loro risoluzione”.
Va precisato che tale impostazione non toccherebbe affatto i diritti acquisiti ma introdurrebbe un nuovo strumento d’azione per estendere un diritto fondamentale quale quello alla casa.
La crisi economica, che agisce in modo specifico sui migranti producendo una loro “clandestinizzazione” forzata, chiama inoltre, per quanto riguarda le problematiche abitative collegate con la norma vigente a quelle lavorative, le imprese a un ruolo di rinnovata responsabilità sociale nei confronti dei lavoratori migranti. Un tema quest’ultimo assolutamente trascurato, su cui invece sarebbe tempo di avviare, da parte delle istituzioni comunali, una approfondita riflessione (specie nei periodi di elaborazione dei piani urbanistici e delle varianti ai piani regolatori).
d) La scuola
Sul piano della formazione, è necessario prima di tutto osservare la dequalificazione forzata dei percorsi di formativi dei migranti, che è stata sistematicamente preferita rispetto ai vantaggi derivabili dal riconoscimento delle loro competenze e dei titoli di studio conseguiti nel paese di provenienza. L’enorme difficoltà di ottenere il riconoscimento riduce le possibilità di mobilità sociale e àncora i migranti ai livelli occupazionali più dequalificati. Da questo punto di vista, l’amministrazione locale potrebbe fornire un servizio pubblico di supporto giuridico e amministrativo per quei migranti che vogliano ottenere il riconoscimento – per quanto necessariamente parziale alla luce della legislazione vigente – dei titoli di studio conseguiti nei paesi di provenienza, o che intendano frequentare in Italia corsi di formazione o universitari.
I recenti interventi legislativi relativi alla scuola dell’obbligo – le cosiddette “classi ponte”, o il tetto del 30% di alunni stranieri, che rischia di precludere l’inserimento scolastico dei figli dei migranti nelle aree a maggiore densità di popolazione straniera – corrispondono ad altrettante forme di discriminazione nei confronti dei migranti già dall’infanzia. Contro questa tendenza, gli enti locali possono favorire l’inserimento scolastico dei figli dei migranti, devolvendo le risorse necessarie a sostenere un percorso formativo primario a pari livello – soprattutto per i bambini arrivati in Italia dopo aver già compiuto i primi passi della scolarizzazione in un altro paese e che non conoscono ancora la lingua. Insegnamenti di supporto – da condividere con bambini italiani che possano, per altre ragioni, averne bisogno – e un uso adeguato del tempo pieno, possono costituire strumenti adeguati a tale scopo.
Una volta raggiunta la maggiore età, i figli dei migranti sono esposti al regime della Bossi-Fini, che li obbliga a trovare un lavoro per mantenere il permesso o che li vincola a permessi di soggiorno per motivi familiari, a loro volta resi precari dal contratto di soggiorno per lavoro di chi ne è titolare. Questo limita notevolmente la possibilità di proseguire gli studi a livello universitario e dunque di accedere a professioni maggiormente qualificate. Un ostacolo ulteriore è dato – anche per i migranti arrivati qui per i soli studi universitari – dai vincoli imposti dal p.d.s per motivi di studio (l’impossibilità di lavorare oltre un certo numero di ore settimanali; la necessità di ottenere determinati risultati di profitto come condizione di continuità del permesso; la reciproca implicazione delle condizioni di rinnovo per cui, ad esempio, per avere il permesso bisogna sostenere gli esami di profitto, che non possono essere sostenuti se il permesso non è perfettamente in regola, condizione particolarmente difficile in presenza delle farraginosità amministrative già descritte). Le istituzioni locali potrebbero intervenire favorendo, all’interno delle scuole superiori, percorsi di informazione che coinvolgano insegnanti, studenti e famiglie, relativi al quadro giuridico-normativo di riferimento e all’individuazione dei canali che possano garantire la continuità scolastica dopo il conseguimento della maggiore età; fornire agli studenti universitari extracomunitari strumenti di supporto adeguati, anche per partecipare ai programmi di mobilità internazionale, che rischiano di essere loro preclusi a causa delle limitazioni alla libera circolazione in area Schengen per coloro che, pur in possesso dei requisiti necessari per il rinnovo del permesso, siano in fase di rinnovo nel periodo previsto per il soggiorno all’estero.
e) Le ‘badanti’
La presenza delle donne migranti – impiegate principalmente in attività di cura alla persona – costituisce un pilastro fondamentale delle trasformazioni contemporanee del welfare, come dimostra l’ultima sanatoria approvata dal governo e limitata in via esclusiva proprio all’emersione del lavoro nero di “colf e badanti”. In particolare, all’erogazione di servizi pubblici si sostituisce progressivamente una monetarizzazione del welfare, ovvero un sostegno economico alle famiglie affinché possano pagare privatamente il servizio di cura. In generale, la salarizzazione di tali servizi è possibile prima di tutto alla luce della disponibilità forzata delle donne migranti ad accettare condizioni salariali e orari di lavoro particolarmente svantaggiosi, quando non la completa assenza di una regolazione contrattuale. Gli interventi realizzati in questo quadro, come gli sportelli – pubblici, privati, sindacali – volti a favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta del lavoro di cura agiscono all’interno di condizioni strutturalmente svantaggiose per le donne migranti. L’amministrazione locale può invertire questo trend istituendo incentivi che favoriscono la regolarizzazione delle condizioni lavorative delle donne migranti impiegate nei servizi domestici e di cura alla persona, in modo che sia garantita una certezza dell’orario di lavoro e del salario. Per evitare che, come spesso accade, siano le lavoratrici a pagare i propri contributi una volta regolarizzate, l’incentivo potrebbe essere costituito proprio dalla copertura pubblica della quota previdenziale del salario.
f) Il CIE
L’amministrazione locale non può evidentemente incidere sulla presenza in città di un CIE (aperto, a Bologna, nel 2002-2003). Può, tuttavia, esprimere una chiara posizione politica in favore della sua chiusura, ad esempio tramite un ordine del giorno che denunci non solo la funzione di questa struttura nell’ambito dei processi di clandestinizzazione e controllo del lavoro migrante, ma anche per le ripetute violazioni che al suo interno si compiono ai danni dei migranti detenuti (dalla difficoltà di accedere a documenti informativi nella propria lingua agli episodi di violenza ai danni dei detenuti, alla limitazione – in regime di detenzione amministrativa e non penale – delle possibilità di comunicazione con l’esterno, solo per fare alcuni esempi). In questo modo, oltre a dare un chiaro segnale a favore della chiusura dei centri, l’amministrazione locale getterebbe le condizioni per una più efficace azione di controllo da parte di figure, come il garante della privacy, deputate alla supervisione del funzionamento dei CIE nel rispetto dei diritti degli uomini e delle donne che vi sono detenuti.
6. Conclusione. Il governo locale e la creazione del discorso pubblico
Compito della elaborazione politica è certamente criticare e decostruire i processi politici e sociali del presente per metterne in luce la complessità, ma anche gli errori compiuti nelle scelte di governo sia a livello centrale sia a livello locale; tuttavia è necessario darsi anche il compito di avanzare proposte capaci di mettere in campo una nuova immaginazione del nostro spazio comune di convivenza. Accanto a specifiche proposte di politiche pubbliche (casa, lavoro, scuola, assistenza, che sono state esplicitate nelle pagine precedenti), è di centrale importanza che anche i governi locali e i loro rappresentanti, proprio perché sono i soggetti politici che hanno il contatto più diretto con le persone, le donne e gli uomini, i bambini e gli anziani che abitano le città e i territori, che più hanno la possibilità di dialogare con loro e di ricevere le loro istanze, comincino ad operare anche in direzione della costituzione di un nuovo lessico per il discorso pubblico-politico capace di porsi in alternativa alla cristallizzazione e alla reificazione delle identità che abita le parole del multiculturalismo.
Si potrebbe a questo proposito far propria la constatazione di Amartya Sen espressa in merito alle politiche britanniche degli ultimi anni, che fotografa anche la situazione italiana. E cioè che una visione ristretta del multiculturalismo, che insistesse sul fatto che l’identità di una persona debba essere definita dalla sua comunità o dalla sua religione d’appartenenza, che trascuri le altre affiliazioni che un individuo possiede (dalla lingua, dalla classe sociale e dalle relazioni sociali alle opinioni politiche e ai ruoli civici), e che dia automaticamente la priorità alla religione o alla tradizione ereditata rispetto alla riflessione e alla scelta, presenta seri problemi, sotto il profilo delle rivendicazioni morali e sociali. Eppure è la versione del muticulturalismo che si è imposta nel discorso pubblico (tanto di destra quanto di sinistra) e che ha prodotto la sua percezione da parte dell’opinione pubblica quasi esclusivamente lungo l’asse paura-sicurezza e la conseguente risposta invece che con progetti di convivenza con soluzioni improntate al separatismo.
Lavorare sul linguaggio, che come insegnano le teorie linguistiche non è mai un’azione neutra ma ha implicazioni dirette sul nostro modo di stare al mondo e di relazionarci con gli altri, significa lavorare a che la questione multiculturale inizi a parlare una nuova lingua della politica, capace di avere presa sul reale, di stare all’altezza del presente. Ciò significa rifuggire dall’uso del termine identità, concetto ambiguo perché rinviante al patrimonio di una presunta comunità incontaminata perduta e di fatto foriero di conflittualità e violenza come ci testimoniano le cronache, e cominciare a introdurre nel discorso pubblico un differente significato per alcune parole. Per esempio, la parola cultura, usata e abusata nella polemica quotidiana, va sottratta ad una rappresentazione linguistica che la percepisce come un’identità monolitica, e va connotata come parola che rinvia a un processo dinamico, storico, socio-politico prodotto dalle relazioni linguistiche, sociali, economiche e culturali fra le persone. La cultura non è ascrittiva, un costrutto che divide “noi” da “loro”, ma tutti noi, donne e uomini, bianchi e neri, cristiani e musulmani, non siamo né mono- né multi-culturali, piuttosto siamo inter-culturali, il prodotto in fieri delle nostre relazioni sociali. Ancora più necessaria, soprattutto per quella parte politica che si vuole progressista, è poi una nuova definizione di spazio politico, adatto per il presente post-nazionale della società multiculturale che la nostra città, la nostra regione, il nostro Paese e l’Europa già sono. Uno spazio politico che si affermi come innovativo, non limitato da barriere restrittive e confini artificiali imposti da politiche etniche, fondate sull’identità o rivendicate da proclami culturali e fondamentalistici, non semplicemente spazio di sicurezza governato dalla paura, ma spazio aperto, inteso quale spazio di incontro interculturale. Uno spazio, in definitiva, in cui sia le differenze sia il bisogno di maggior uguaglianza e giustizia sociale siano riconosciuti e assicurati per tutti.