Pubblichiamo l’intervento integrale di Matilde Callari Galli (Vicepresidente Fondazione Gramsci Emilia-Romagna) in apertura della seconda giornata degli Stati Generali sulla Cultura di Bologna del 29 ottobre 2010.
La Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna sin dalla sua nascita si è proposta di svolgere ricerche e analisi su temi e questioni politiche, culturali e sociali che caratterizzano il nostro tempo proponendosi di affrontarle con un approccio scientifico transdisciplinare; ha così richiamato intorno a sé studiosi appartenenti a tradizioni di pensiero diverso ed ha conquistato la sua autonomia proprio favorendo il dialogo fra approcci a volte contrastanti sino alla conflittualità. Così l’agenda degli ultimi tempi presenta fra le sue iniziative più rilevanti collane di seminari quali le letture gramsciane, il laboratorio di analisi politica con giornate di studi, lezioni magistrali sui rapporti tra lavoro e democrazia, sui processi politici e i conflitti sociali, sui rapporti tra letteratura e politica, su letteratura ed etica, sulle politiche per i diritti.
A questa attività di analisi e sintesi critica, la Fondazione affianca ricerche sui fondamenti epistemologici della nostra vita sociale e ricerche empiriche sulla sua fenomenologia, così come si presenta nella contemporaneità. Con la sua politica culturale la Fondazione ha sempre inteso diffondere le sue elaborazioni con la volontà costante di produrre chiavi di lettura innovative che possano essere utili a chi amministra la nostra città; e il suo proposito di porsi come un servizio per la città è reso ancora più evidente dalla gestione di una biblioteca che costituisce uno dei centri più importante a livello nazionale e internazionale del pensiero politico contemporaneo.
Il titolo di questa nostra sessione chiama in causa la necessità di contribuire a localizzare nella città contemporanea significati, ruoli, funzioni che la cultura esplica o può esplicare nella vita di chi questa città abita o attraversa. Proprio intorno all’ambito sfuggente e complesso costituito dai due poli che qui oggi mettiamo in relazione – cultura e città – mi sembra che si possano ricomporre le molte attività che la Fondazione Istituto Gramsci Emilia Romagna sta svolgendo: se riferisco le diverse parti del suo progetto alle politiche della città individuo un percorso che può essere utile esplicitare e potenziare per cercare nuovi modi di gestire il rapporto tra le pratiche culturali e la comunità locale. Mi sembra infatti che le attività del precedente elenco trovino unitarietà e tensione nel muoversi e nell’operare contro le frammentazioni, i compartimenti stagni che si sono prodotti all’interno del corpo sociale della nostra città. E’ il tentativo, aprendosi al colloquio con le istituzioni culturali della città – prima fra tutte l’Università -, di porre in rapporto pensiero politico e vissuti quotidiani, i linguaggi letterari e i linguaggi dei massmedia più diffusi e più popolari, di cogliere le rapide mutazioni nel mondo della scuola e nell’occupazione, di collegare l’economia sociale e la ricerca etnografica sulle povertà; in breve è uno sforzo teso ad analizzare le profonde trasformazioni culturali della nostra quotidianità per individuare negoziazioni possibili tra mondi che rischiano di allontanarsi sempre più.
La cultura ha cessato di essere – ammesso che lo sia mai stata – una sorta di appendice decorativa del “mondo pesante” della produzione e degli oggetti. E l’informazione è oggi materiale quanto il mondo, è il mondo. Da un lato la tecnologia e lo styling hanno invaso la produzione che ingloba l’estetica contemporanea, dall’altro con il marketing, con la pubblicità forniscono rappresentazioni e immagini per quei gruppi sociali dai quali dipende il consumo moderno. Se questa visione della cultura apre il rapporto con la deprecata mercificazione della nostra epoca che va analizzata per rivelare i suoi aspetti avvilenti e i suoi meccanismi di ottundimento, è anche importante tenere presente le dinamiche continue, i vistosi cambiamenti che attraversano questo mondo: inoltre esso con le sue tecnologie sempre più omnipresenti e pervasive è anche in grado di aprire un numero crescente di individui alle energie e alle dinamiche della contemporaneità. Scegliere solo il primo polo dell’analisi ci espone a due rischi: non vedere quanto e come queste forze operino per una democratizzazione della cultura e ignorare quanti elementi innovativi esso contiene rispetto ad una visione di cultura popolare quale serbatoio di tradizioni localistiche, chiuse se non ostili alla modernità. Uno schema analitico che ci aiuta a sfuggire a queste trappole appartiene al pensiero gramsciano: considerare cioè l’ambito delle forme e delle attività culturali come un campo in continuo mutamento, guardare alle molte relazioni che lo attraversano, ponendo al suo centro rapporti di forza mutevoli e diseguali.
La visione della differenza come eredità storica ricevuta dal gruppo come nucleo così autentico e radicato da determinare la sua visione del mondo, il senso della vita collettiva e individuale, produce un relativismo culturale radicale che finisce con il chiudere il gruppo in un totale isolamento, che rende intraducibili i suoi stili di vita. In questa prospettiva il multiculturalismo della nostra epoca è spesso considerato un coacervo di differenze, immobili, immodificabili e quindi destinate a scontrarsi tra loro. Ed oggi il mondo culturale e quindi politico è invaso dalla tendenza a reificare le differenze: tutte le tradizioni, le “nostre” e le “loro”, tutti i modelli culturali, i “nostri” e i “loro”, tutte le identità, le “nostre” e le “loro”. Da qui scaturisce l’inevitabile pronostico degli “scontri tra civiltà”.
L’essenzialismo culturale, alla base di molte visioni politiche dell’Italia contemporanea, costituisce una nuova forma di “razzismo”, più pericolosa del razzismo che mettendo a suo fondamento l’esistenza della razza consente di smontarlo su basi scientifiche e storiche. Il nuovo razzismo postulato dall’essenzialismo culturale è più subdolo in quanto si basa sull’appartenenza ad una cultura dai caratteri vaghi, così generici da non poter essere valutati nella loro concretezza, basati più che altro su stereotipi, pregiudizi e infondati luoghi comuni.
L’essenzialismo culturale inoltre è causa di un flusso di pensiero che ha fatto entrare (o rientrare) nell’agenda politica di tutta Europa il tema dell’etnicità. Per quanto le etnie, alla prova etnologica e storica ci appaiano pure invenzioni, dobbiamo guardare con lucidità a questo ritorno: senza dubbio l’etnicità è un elemento di conservazione, una falsa identità che alza steccati insormontabili, esclude ogni forma di mediazione su valori e comportamenti, conduce alla lacerazione sociale; tuttavia in un esame delle forze culturali oggi in campo dopo aver svelato le “invenzioni strumentali” di tradizioni e di etnie, siamo chiamati a individuare a quale bisogno questa passione per l’etnicità corrisponda dato che si sta trasformando in uno spazio di lotta per l’inclusione e l’esclusione di gruppi sempre più ampi. Con la vastità e la rapidità con cui conquista consensi, essa indica il bisogno per gli individui di punti di radicamento che possano fornir loro un qualche “senso” di luogo e di posizione nel mondo. I radicamenti possono stabilirsi in rapporto a comunità, a località ma anche a linguaggi, a religioni, a culture particolari: ed essi sono importanti perché sono in grado di fornire ancoraggi di fronte a processi imprevedibili e sconosciuti, quali la globalizzazione, lo “spaesamento” derivante dalle migrazioni, l’eccesso di informazioni, il cosmopolitismo, la transnazionalità.
La politica culturale non può trascurare questa necessità di identità; nell’assumerla tuttavia deve dimostrare con le sue pratiche che oggi non esistono identità uniche ma i gruppi e gli individui vivono nel corso della loro vita, spesso contemporaneamente, più identità; ed esse oltre che molteplici sono variegate, dinamiche, mobili nei loro processi. Così come è importante individuare il capitale culturale di un territorio, del territorio che si elegge come proprio ma non per ancorarsi e rinchiudersi in esso ma per collegarlo ai nuovi obiettivi di una società complessa, a rischio e globale.
Non si tratta solo di sviluppare le riflessioni teoriche sul rapporto tra politica e cultura ma muovendo da queste applicare agli spazi pubblici della nostra città ricerche empiriche, progettare e svolgere forme di intervento per approfondire i legami con i “luoghi” che i diversi gruppi cittadini abitano e attraversano nella loro quotidianità, avanzare proposte per nuove forme di partecipazione alla loro gestione, individuare l’emergere di nuove forme di povertà e di esclusione sociale in fasce sociali che per i loro progetti di vita erano lontane, sino a qualche anno fa, da questo rischio.
Cercare, in altre parole, di attuare quella differenzazione dell’offerta che una società frammentata richiede per poter trovare fra i frammenti linguaggi con cui comunicare, interessi anche parziali su cui convenire.
Gli spazi pubblici, a Bologna come nelle altre città, costituiscono il luogo privilegiato delle pratiche multiculturali: lo spazio urbano è lo spazio della differenza, della mobilità e della variabilità; nello spazio urbano l’alterità viene percepita come una presenza continua e la differenza è un elemento costitutivo della vita della città. Cercare, riconoscere, utilizzare, dissolvere le differenze diviene una necessità costante per avere accesso alle risorse materiali e simboliche sempre meno abbondanti, è una necessità per partecipare in modo appropriato e competente a molte interazioni essenziali per la vita sociale di un individuo e di un gruppo.
E’ stato detto che viviamo in una democrazia agonistica: uno dei suoi presupposti è che le differenze disseminate nello spazio sociale non possano essere pensate al di fuori di un processo continuo di dominio e di resistenza ma esso non può neanche essere pensato senza considerarlo luogo di negoziazione tra le diverse identità, luogo di un processo difficile ma continuo di reciproco riconoscimento.
Questo concetto di negoziazione, di meticciato attivo non è importante solo sul piano analitico e teorico ma anche su quello politico; supera infatti la logica delle contrapposizioni binarie e suggerisce nuove pratiche. Ponendo attenzione agli spazi intermedi, alle zone opache del contatto sociale, alle posizioni liminali si abbandona una visione essenzialista delle identità culturale; al tempo stesso si è stimolati a cercare nuove forme di reciproco incontro e di dialogo, e quindi a chiedere che la città modifichi i suoi spazi pubblici, li finalizzi maggiormente nel loro disegno e nella loro progettualità a momenti di incontro attivo e richiesto.
Molte sono le aree culturali in cui il meticciato culturale dimostra la sua forza e la sua produttività: la musica, la letteratura, le arte visive, l’architettura hanno da sempre nella maggior parte delle culture conosciuto e praticato i processi di ibridazione ma mai come ora essi, in questi campi, profondamente trasformati dalle nuove tecnologie nella loro produzione e nella loro fruizione, sono così frequenti, così numerosi, mai hanno coinvolto un così gran numero di persone sia come produttori che come fruitori. Ed allora sarebbe importante far entrare la documentazione e le spiegazioni di questi incontri nelle offerte culturali che le diverse istituzioni elaborano, renderli parte organica dei percorsi educativi, farli praticare da giovani e meno giovani, individuare nelle arti un veicolo che dimostri la produttività culturale ed economica dell’incontro con le diversità.
L’attenzione in linea generale va posta su un nuovo modo di concepire l’apporto che le attività culturali sono in grado di dare alla vivibilità della nostra città, quali energie siano in grado di attivare e stimolare, quale produttività sociale ed economica possa da esse generarsi.
E su questo tema specifico la Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna ha ultimamente avviato un gruppo di lavoro che raccolga da fonti differenziate – associazioni e istituzioni culturali, gruppi e piccole imprese – il significato e il valore sociale delle molte attività culturali svolte nella nostra città: l’obiettivo è di definire l’ambito metodologico necessario per giungere ad un modello condiviso di welfare culturale, che consideri cioè la cultura un bene pubblico indispensabile per il benessere individuale e collettivo, per la vita personale e per l’organizzazione delle relazioni fra i diversi gruppi che condividono lo stesso spazio urbano: un modello che individui nuovi rapporti tra le diverse fonti di finanziamenti destinati, dai settori pubblici e privati, alla produzione culturale, che includa in essa pratiche nuove per l’accesso alla cultura, come fruitori e come produttori, di coloro che da essa sono esclusi, valorizzando sia i contributi che provengono dalle molte diversità che abitano la nostra città sia le nuove tecnologie della comunicazione declinate ad incentivare la partecipazione ai “luoghi”, reali e simbolici della città e sia infine in grado di valorizzare pienamente il complesso patrimonio identitario cittadino.
Matilde Callari Galli