In occasione della “Giornata della memoria” la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna pubblica sulle pagine del proprio sito alcuni capitoli del libro di Pelagia Lewinska, Vingt mois à Auschwitz, edito a Parigi già nel 1945. Il volume è conservato presso la Biblioteca della Fondazione e proviene dalla Ex Libreria Palmaverde di Roberto Roversi. Testimonianza drammatica di una superstite internata ad Auschwitz, il libro viene presentato nel nostro sito da una introduzione di Gianni Sofri. È disponibile la versione digitale integrale.
Rendiamo visibili quattro capitoli del volume digitalizzato:
Su Vingt mois à Auschwitz di Gianni Sofri
Il patrimonio librario della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna si rivela sempre più ricco e anche sorprendente, soprattutto dopo essere stato ulteriormente impreziosito dall’acquisizione della libreria Palmaverde di Roberto e Elena Roversi. È per l’appunto da questo fondo che, cercando come ogni anno un testo da proporre nel loro sito in occasione della Giornata della Memoria, i responsabili della Fondazione hanno visto emergere una curiosa trouvaille, interessante sia per il suo contenuto, sia dal punto di vista del bibliofilo. Parliamo della prima edizione (Paris, Nagel, 1945) di Vingt mois à Auschwitz, di Pelagia Lewinska, con una introduzione di Charles Eube e un poema di Paul Eluard. Si tratta cioè di uno dei più antichi esempi di memorialistica dei sopravvissuti di Auschwitz: molto rari nel ’45, a così poca distanza dalla fine della guerra e dalla liberazione dei campi, e ancora più rari nel caso della memorialistica femminile. Polacca, membro autorevole del Partito comunista e del Parlamento polacco nel dopoguerra, Pelagia Lewinska è stata probabilmente uno dei più longevi tra i reduci di Auschwitz, essendo vissuta dal 1907 al 2004. La sua testimonianza ebbe grande risonanza alla prima uscita del libro, e le ottenne importanti riconoscimenti in patria (ancora nel 2003) e fuori. Il libro ebbe in Francia altre edizioni, e fu tradotto in più lingue, tra cui l’inglese e l’italiano. Nel 1946, infatti, l’editore Ramella di Torino pubblicò un volume intitolato Donne contro il mostro, che comprendeva due scritti di due autrici diverse: uno era per l’appunto Venti mesi a Oswiecim della Lewinska, l’altro Ricordi della casa dei morti di Luciana Nissim Momigliano.
Di Charles Eube, autore dell’introduzione, non è stato possibile, in breve tempo, trovare notizie precise. E tuttavia c’è come ora vedremo una curiosità che lo riguarda. Può colpire il lettore, nelle pagine di Eube, l’insieme di giudizi molto duri sulla Germania e i Tedeschi. Vi si sostiene, in pratica, una sorta di peccato originale della Germania e della sua cultura, che conduce a una pressoché completa identificazione tra nazisti e tedeschi. Eube ritiene che se anche i carnefici nazisti fossero stati eliminati, l’immensa maggioranza dei soldati della Wehrmacht e dei civili tedeschi li avrebbe rimpiazzati gioiosamente. Parla di una “eterna tendenza germanica a volersi far servire da schiavi, a uccidere, a saccheggiare e a deportare” i popoli che ne ostacolino le mire. Ammette delle eccezioni, ma afferma che il comportamento tedesco è qualcosa di diverso da quello che noi definiamo come un comportamento umano.
Siamo insomma ben lontani dalle parole che Leone Ginzburg, sanguinante dopo un interrogatorio, trovò la forza di dire a Pertini, incrociandolo nei corridoi di Regina Coeli: “Guai a noi se domani […] nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco. Dobbiamo distinguere tra popolo e nazisti”. E tuttavia, nel leggere queste pagine, dobbiamo tener presenti alcune cose. La prima è che in quegli anni la rabbia disperata era molto diffusa (e comprensibilmente) in chi era da poco miracolosamente sfuggito all’inferno dei Lager o ne aveva ascoltato quasi incredulo i racconti (è il caso di Eube). La seconda è che questi accenti così fortemente presenti nelle pagine dell’introduzione sono invece quasi assenti, o comunque assai rari, in quelle della Lewinska, che sono invece essenzialmente un racconto, duro e terribile, e anche pieno d’ira (come potrebbe non esserlo?) contro quei tedeschi, uomini e donne, che governavano il Lager e che cercavano spietatamente di mortificare e distruggere ogni forma di dignità nei prigionieri. Ma è anche, il libro della Lewinska, un inno alla vita, alla capacità di resistere. “Il trionfo dell’uomo” è il titolo dell’ultimo capitolo, e queste sono le due ultime righe del libro: “Anche a Oswiecim, l’Uomo conobbe a volte trionfi degni di Stalingrado”.
Ma la storia non finisce qui. Di Robert Antelme, una delle grandi figure del mondo dei deportati che hanno raccontato la Shoah, si ripete spesso che ha scritto un solo libro (ancorché un grande libro): La specie umana (uscito in Francia nel ’47, tradotto da Einaudi nel ’69). In realtà, Antelme scrisse qualcosa d’altro, che ha a che vedere con il nostro tema, e che lo portò per un momento a incrociare Charles Eube.
Nel ’45, una parte della stampa francese dette notizia di maltrattamenti cui erano sottoposti in alcuni casi i prigionieri tedeschi in Francia. Antelme, tornato a casa da Dachau pochi mesi prima in condizioni fisiche spaventose, scrisse subito un articolo per “Les vivants. Cahiers publiés par des prisonniers et déportés”. Lo intitolò Vengeances?. Vi sostenne che il prigioniero “è un essere sacro, perché è un essere abbandonato, che ha perso tutte le sue chances”. Se è un criminale, va giudicato e condannato, ma nulla va aggiunto alla sua pena legale, perché sarebbe barbarie. Nessuno, che avesse subito su di sé le più terribili violazioni della giustizia, della libertà, della dignità e del rispetto dell’uomo avrebbe potuto tollerare che in suo nome analoghe violazioni venissero fatte subire ad altri, anche se colpevoli. Senza il minimo riferimento alla nozione cristiana di perdono, Antelme vedeva tuttavia l’unica possibilità di salvezza nel rifiuto della barbarie e in un no deciso alla vendetta. Si può capire come fosse Charles Eube, in una lettera indirizzata al “Cahier” successivo, a protestare contro queste posizioni, denunciando l’ipocrisia dei tedeschi, il loro chiedere perdono essendo pronti a ricominciare, la loro tendenza secolare, già chiara ai tempi di Schiller, a prendersi per sé tutte le libertà togliendole agli altri per farli propri schiavi. Antelme gli rispose. Scrisse che già il dire “il tedesco”, il parlare di tedeschi come di un’entità unica, priva di differenze e di contraddizioni, era cosa da fargli passare ogni voglia di dialogo. Ricordò le migliaia di tedeschi che fra il ’33 e il ’39 si erano opposti al nazismo, pagando anche con la morte. Rifiutò con decisione “lo schema della ‘Germania eterna’”. Propugnò una politica di denazificazione autentica e di sostegno agli elementi democratici, e ricordò una frase recente di Benes: “Occorrerà conseguire una trasformazione spirituale della Germania, e questo richiederà trent’anni”.
I due brevi testi di Antelme, Vengeances? e Réponse à Charles Eubé (questa volta scritto con l’accento) vennero allora pubblicati insieme. Di recente, nel 2005, li ha ripubblicati l’editore Verdier nella collana Farrago.
Ma non possiamo finire questa breve presentazione senza ricordare, a mo’ di conclusione, un punto molto importante. Ciò che pensavano, in contesti diversi, Leone Ginzburg e Robert Antelme (e Benes e altri) non era solo un modo di ragionare “nobile”, che rifiutava ogni forma di fascismo e di razzismo. Era anche capacità di prevedere e volontà politica. Nei decenni che ci separano da loro, la Germania ha saputo condurre un esame coraggioso e spietato di se stessa, del proprio passato, della propria storia. E benché mai la Storia archivi del tutto i problemi, e i pericoli di un ripresentarsi in nuove forme del Male siano sempre presenti dietro l’angolo, i frutti di quel lavoro sono davanti agli occhi di tutti, sicché la Germania di oggi può andarne orgogliosa. Cosa che non si può dire di altri Paesi (a cominciare dal nostro: ma si pensi alla rinascita dell’estrema destra, negli ultimi anni, in tanti Stati dell’Europa orientale), i quali si sono crogiolati nell’idea di aver conosciuto fascismi più “moderati” e meno dannosi, o di essere stati solo vittime e in nulla carnefici. Questa, non certo di poco conto, è forse l’ultima considerazione (ma fra le tante altre possibili che lasciamo al lettore), suggerita da questo libro.
l’introduzione di Gianni Sofri mi ha comunicato la voglia di andare a leggere il libro di Pelagia Lewinska sul web. In questi anni, chi voleva, ha avuto l’opportunità di informarsi, di sapere, di ricordare, ma questo testo sembra particolarmente importante per la sua vicinanza ai fatti. Una testimonianza che non aveva ancora subito il filtro della selezione della memoria.
Ringrazio l’Istituto Gramsci e Gianni Sofri per l’opportunità e la segnalazione.
Janna Carioli
Molto opportuno e molto interessante, grazie
Anna
grazie di questo lavoro. Spero di poter raccogliere presto la biografia di Pelagia Lewinska nel nostro progetto http://www.enciclopediadelledonne.it; ringrazio Gianni Sofri per la grazia e l’intelligenza che sempre si esprimono nella sua scrittura capace di intendere le pieghe delle cose, in una misura giusta- oggi o niente pieghe o troppe pieghe! Lo ringrazio anche per quel richiamo alla elaborazione del passato che a oggi mi parrebbe l’unica medicina anche per ripensare gli ultimi 60 ani della storia italiana. Qualcosa di simile all’operazione sudafricana “verità e riconciliazione”, perché credo che la situazione terribile in cui ci troviamo sia figlia di tante rimozioni e di una lettura del passato recente non condivisa.
Segnalo in questo senso- e relativamente al razzismo italiano un articolo di vittorio beonio l’oblio condiviso all’indirizzo:http://www.golemindispensabile.it/index.php?_idnodo=17194&_idfrm=61