Martedì sera sia il Tg1 che il Tg3 hanno dato conto del rogo appiccato alla Città della scienza di Bagnoli in coda ai rispettivi notiziari;
il Tg1 addirittura dopo aver commentato il doppio ergastolo del caso Scazzi, richiesto dalla pubblica accusa per le autrici del delitto, madre e figlia. La notizia dell’incendio, manifestamente doloso (o almeno con ogni probabilità), è stata giudicata insomma la meno rilevante della serie, aperta dalle consuete congetture sulle alleanze possibili o impossibili per la formazione di un nuovo governo formulate dai vari leader, sotto-leader, semi-leader, ex leader puntigliosamente interrogati dagli insaziabili cronisti.
Ma come, non dicono tutti che la politica deve fare svariati passi indietro? Che il «palazzo» è sotto accusa? Che bisogna smetterla con le parole e pensare ai fatti? Ieri mattina, mercoledì, Il Corriere della Sera ha addirittura cancellato dalla prima pagina il rogo di Napoli a favore, suppongo, di questo titolo: «Berlusconi sta valutando se telefonare al segretario pd, che naturalmente interpreta le ansie nascoste degli italiani in questo momento» (non meno di quest’altro titolo: «Il Centro precipita nel proprio vuoto», o di quest’altro ancora: «La carta finale di Bersani», e via elencando).
Che strano paese, il nostro! E smettiamola per favore di dire che la colpa è tutta e soltanto del ceto politico che ci rappresenta.
L’Italia ha il ceto politico che si merita, il giornalismo che si merita, l’etica pubblica che si merita, e via di questo passo.
E qui è necessario tornare subito al rogo di Bagnoli, sulla cui origine criminale personalmente ho ben pochi dubbi. Non perché ne sappia più degli altri; forse proprio perché ne so di meno, costretto come sono dalla mia età a vivere tappato in casa: io e i miei fantasmi (molto meno bugiardi di quello che si può credere). Donde derivano le mie semi-certezze? E’ presto detto. Derivano dalla consapevolezza che, dalla scomparsa dell’acciaieria in poi, Bagnoli è diventata terra di perenni scorrerie da parte della malavita in genere, e in particolare della malavita legata agli interessi di quella speculazione edilizia senza scrupoli che aspira a mettere le mani sui suoli dismessi dell’Ilva da sempre, anzi addirittura da prima che la fabbrica fosse condannata a sparire (sino a indurre il sospetto di aver avuto qualche ruolo in quella sentenza di morte).
Sono trascorsi ventitrè anni dal giorno dell’ultima colata avvenuta nell’acciaieria (fu eseguita dagli operai con le lacrime agli occhi, come si conviene in una cerimonia funebre). Poco meno di un quarto di secolo durante il quale non si è riusciti a dare un volto nuovo all’area né a disinquinarla completamente, stringendo così Bagnoli nella morsa di una dismissione senza fine, che dura ancora e di cui il rogo della Città della scienza costituisce l’ultimo agghiacciante episodio (cui altri seguiranno, come escluderlo in un paese in cui il principio della responsabilità individuale e collettiva è stato bandito da secoli?).
La Città della scienza, fiore miracolosamente fiorito in questa radura disperata, crocevia di turpi appetiti e di violenti di ogni risma, si direbbe che era destinata a fare la fine che ha fatto, e non certo per volontà degli dei, che non esistono: era un’anomalia, una disperata promessa di diversità, di pulizia morale, di intelligenza urbanistica e culturale. Era la disarmata antitesi del Disastro. Di qui la mia semi-certezza sulle cause del rogo. L’hanno cancellata gli addetti al Disastro, i cultori del Disastro, coloro che lucrano attraverso il Disastro. Chi altri sennò? Il caso? Mah! Non ci credo.
Hanno mostrato di credervi invece alcune importanti testate giornalistiche. Viva l’Italia!