Quel senso del dovere in eredità.
di Carlo Galli, presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna.
Repubblica cronaca di Bologna pag. 3 del 08/08/2015
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Renato Zangheri è stato, fino ad ora l’ultimo che mi ha sottoposto a un esame. E non quando ero un ragazzino, ma già quando avevo sessant’anni, una cattedra a Bologna, una presidenza dell’Accademia delle Scienze, ed ero editorialista politico di “Repubblica”. Quando, insomma, erano molti anni che gli esami li facevo io.
Appena eletto presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna nel 2009, mi ero recato a Imola, insieme alla direttrice Siriana Suprani, per pregare Zangheri di assumere la presidenza dell’assemblea dei fondatori, l’organismo che sta alla base dell’istituzione. Chiaramente era lui che ci avrebbe fatto un onore accettando. Accolto con la massima gentilezza e cordialità, mi trovai ben presto a parlare di università e poi di politica, interna e internazionale.
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Erano ancora gli anni di Berlusconi; la crisi dei mutui sub prime stava iniziando a propagarsi anche in Europa; il Pd aveva appena perduto le elezioni. Insomma, fu un giro d’orizzonte abbastanza ampio, in cui scambiammo analisi, osservazioni, argomentazioni non proprio da bar.
Ad un certo punto del nostro dialogo mi accorsi che Zangheri mi stava esaminando. Con garbo, con finezza e leggerezza di modi, col gusto dialettico che si mette in una pacata ma intensa discussione fra colleghi che si stimano. Me ne accordi, e non ne fui per nulla seccato o turbato. Prima di tutto perché Zangheri era più vecchio di me di una generazione, e si trattava per di più di un collega di cui riconoscevo volentieri l’autorevolezza, il prestigio, il magistero. E poi perché aveva ben diritto di capire chi aveva davanti (di me, giustamente, non sapeva poi molto) e quale tipo di gestione del Gramsci gli si chiedeva di avallare col suo nome. Ma soprattutto perché intuivo che con quell’esame, non certo inquisitorio eppure reale, mi stava dando una lezione. Della quale gli ero grato, per come la decifravo.
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Era la lezione della serietà, della dedizione a un compito, della fedeltà a un profilo personale, intellettuale e politico. Dopo una vita in cui aveva avuto responsabilità ben più alte e impegnative, Zangheri, già affaticato, prendeva sul serio se stesso, il proprio ruolo e anche il suo interlocutore, e dimostrava senza arroganza e senza proclami che cosa significa essere parte di una élite (in questo caso, politica e intellettuale). Significa non tanto esercitare diritti o, peggio, privilegi, ma, al contrario, non arretrare mai davanti al proprio dovere; servire fino in fondo nelle cose grandi e nelle meno grandi, un ideale di impegno, di attenzione, di prudente e partecipe comprensione del mondo. “Quando un intellettuale si vuole dedicare, anche in senso lato, alla politica – mi stava implicitamente dicendo – deve impegnarsi in essa con lo stesso rigore con cui ha condotto i suoi studi; la serietà con cui io, Zangheri, ora cerco di capire chi è e che cosa pensa colui che ho davanti non è gratuita severità: è il mio dovere di intellettuale e di politico, al quale sono stato educato, e che intendo onorare in ogni circostanza”.
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Quell’esame andò bene, per me. Feci una discreta figura. Ma come sempre avviene, e come è giusto che sia, anche chi esamina è valutato dall’esaminato. E ai miei occhi di allora, e di ora, la figura più bella la fece lui, anziano signore ricco di gloria meritata, che ancora una volta si faceva carico di quello che giudicava il suo dovere, e che testimoniava, adempiendo scrupolosamente, che l’autentica autorevolezza nasce da un habitus di imparziale rettitudine, nel suo caso tinta di amabilità e signorilità.
Un esame, una lezione, una testimonianza che, come capivo bene, veniva da un grande passato, dall’incrocio di molte nobili tradizioni accademiche e politiche, perdute forse per sempre, che proprio per la loro inattualità mi conquistarono pienamente, e che volentieri ricordo oggi, in memore omaggio di una grande figura.
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