Dichiarazione di monumento nazionale della Casa Museo Gramsci in Ghilarza
Intervento alla Camera dei Deputati di Carlo Galli in sede di discussione generale (18 aprile 2016)
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Signor Presidente, onorevoli colleghi, il 26 gennaio di quest’anno la Casa Museo di Antonio Gramsci in Ghilarza è stata dichiarata dalla Commissione regionale per il patrimonio culturale della Sardegna di interesse culturale storico-artistico, ai sensi degli articoli 10 e 13 del codice dei beni culturali. Dunque la Casa è un bene culturale, con gli obblighi e con i diritti per i proprietari che ne conseguono. La dichiarazione di monumento nazionale è altra cosa, e dev’essere attuata attraverso una fonte legislativa di rango primario, i cui effetti giuridici forse sono non ancora ben definiti (ce lo rammenta anche una circolare del Ministero del 5 giugno 2012), ma in ogni caso – si è detto, e giustamente – non devono passare attraverso un procedimento irragionevole.
Ora, si tratta di capire perché mai non è irragionevole che la Casa Museo di Antonio Gramsci venga dichiarata monumento nazionale: una dichiarazione che, se avverrà in questi giorni – rammento prima di tutto a me stesso –, potrebbe essere considerata l’inizio delle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario della morte, che cadrà il 27 aprile del prossimo anno.
Monumento, dunque. Monumento significa etimologicamente memoria, ricordo, in senso tanto oggettivo quanto soggettivo. Monumento è un manufatto che reca la memoria, qualche cosa che è degno di essere ricordato, e la memoria è evidentemente una nozione che ha a che fare con un soggetto che ricorda. In questo caso il soggetto che ricorda è la nazione: monumento nazionale. La nazione italiana ricorda un personaggio che l’ha fatta grande, non soltanto perché egli stesso era grande. Naturalmente Gramsci è stato grande: insieme a Dante e a Machiavelli è l’autore italiano più letto, tradotto e commentato al mondo – su di lui c’è una bibliografia che al momento è probabilmente intorno ai ventimila titoli –. Ma è stato grande anche perché ha dato modo all’Italia, alla nazione italiana, di pensare a se stessa: Gramsci è stato uno dei mediatori dell’autocoscienza nazionale. Il suo pensiero è una cultura storico-politica che si è formata attraverso la riflessione, che tutti conosciamo, su Machiavelli, sul Risorgimento, sul Meridione, sul fascismo, sul ruolo degli intellettuali. Una cultura storico-politica, certamente una fra le possibili; e tuttavia una cultura storico-politica di straordinaria importanza, grazie alla quale l’Italia ha appreso ad essere se stessa.
Gramsci è un monumento, ma non è una statua. Voglio dire che il suo pensiero non è immobile, pietrificato: è un pensiero vivente. Lo dimostra il fatto che è stato, ed è, conteso da mille scuole di pensiero; che la sua lunga, elaborata, drammatica riflessione filosofico-politica, storico-politica, economico-politica, è stata ed è terreno centrale di confronto e di scontro in merito al rapporto fra politica e cultura, fra teoria e prassi, fra strutture e soggettività.
Gramsci è stato presentato alla nazione – che non lo aveva ancora imparato a conoscere – negli anni immediatamente seguenti la fine della Seconda guerra mondiale come il grande intellettuale politico nazional-democratico sulla linea Spaventa-De Sanctis-Labriola-Gramsci; come padre di un marxismo italiano, di un marxismo anti-dogmatico che si voleva porre come espressione ultima di una vicenda nazionale che la continuava e la portava a compimento; come il grande teorico e pratico della via nazionale al socialismo; come colui che operava la «traduzione» – come si espresse Togliatti –, che convertiva in italiano gli insegnamenti della rivoluzione russa, adattandoli all’Italia, facendo sì che l’Italia stessa rivoluzionasse sé stessa, che sostituiva dunque la classe con la nazione. È stato però anche presentato come il grande leninista, cioè non tanto come il grande intellettuale, ma come il grande politico, come l’uomo che ha fondato il partito dei lavoratori italiani; ma è stato presentato anche come il grande consiliarista di sinistra, cioè come il teorico di una politica che nasce all’interno dei processi produttivi e che non ha bisogno di organizzarsi in partito, dato che dentro il processo produttivo esprime da sé la potenza della politica.
È stato presentato poi da Norberto Bobbio come colui che ha superato la rigida distinzione meccanica fra struttura e sovrastruttura, attraverso il concetto di egemonia e di società civile. È stato criticato, come ancora troppo filosofo, dai teorici dell’operaismo; è stato presentato, invece, come filosofo – in questo stava la sua grandezza – durante gli anni Settanta, Ottanta e Novanta, come il filosofo gentiliano – secondo la lettura di Del Noce –, come un filosofo capace di relativizzare e storicizzare lo stesso storicismo; addirittura come un filosofo liberaldemocratico, adatto alla nostra epoca, che si voleva e che si presumeva post-statuale; come l’uomo del mercato o al contrario come colui che ribadiva il primato della politica.
Ancora oggi Gramsci è oggetto di studio non soltanto perché sono state recentemente organizzate nuove edizioni anastatiche dei Quaderni; non soltanto perché è in corso l’edizione nazionale degli Scritti, ma perché il suo pensiero oggi è il veicolo di una buona parte del pensiero critico a livello mondiale. Gramsci oggi giunge quasi a sostituire la stessa fonte marxista del pensiero critico. La sua enorme diffusione nel mondo anglofono, attraverso i Cultural Studies, lo ha reso un patrimonio mondiale della cultura politica. Gramsci non muore con la scomparsa del Partito Comunista, ed è autore e pensatore di tutti gli italiani e di tutte le Italie. Ogni tempo ha il suo Gramsci o può averlo, se si impegna a pensare la politica in modo coerente, alto e serio.
Il pensiero di Gramsci è un organismo vivente, mobile, ancora interpretabile, grazie al suo spessore e alla sua complessità. È ancora traducibile: è nato come una grande riflessione intorno al XX secolo, ma contiene anche una serie di intuizioni relative al XXI. Non è necessariamente – quello di Gramsci – lo strumento privilegiato per comprendere la politica di oggi, ma è certamente, come pensiero e come azione, uno fra i più grandi esempi di esercizio impegnato, di un rapporto costante, di un rapporto imprescindibile, fra la cultura, il sapere e l’azione politica. Non vi è alcun bisogno di essere gramsciani in senso ideologico per trovare ragionevole questo provvedimento di legge che fa della Casa Museo un monumento nazionale. È giusto, è ragionevole, è necessario che una nazione rifletta su se stessa attraverso la riflessione su ciò che vi è di vivente dei suoi grandi uomini. È giusto, ragionevole e necessario che una nazione si ricordi di se stessa, faccia memoria di se stessa. Ed è giusto che la politica – cioè noi, il Parlamento italiano – sia promotrice di questa riflessione e sia promotrice anche di un’azione politica che, benché non sia, come voleva Gramsci, la sostanza della filosofia della storia, si sforzi almeno di essere qualche cosa di più di un disinvolto pragmatismo che ogni tanto opera qualche generico riferimento a «valori».