Intervento alla Camera dei deputati di Carlo Galli in sede di dichiarazione di voto
21 aprile 2016
Signor Presidente, onorevoli colleghi, che la Casa Museo di Antonio Gramsci in Ghilarza, dopo essere stata dichiarata dalla Commissione regionale per il patrimonio culturale della Sardegna bene di interesse culturale, storico e artistico, venga ora definita «monumento nazionale» è certamente un riconoscimento prima di tutto al lavoro volontario di quanti l’hanno fino ad ora gestita, non senza fatiche e difficoltà. Ma è soprattutto l’occasione per una breve riflessione che può essere interpretata come l’avvio delle celebrazioni, fra un anno, dell’ottantesimo anniversario della morte di Gramsci, avvenuta il 27 aprile 1937.
Che un gruppo parlamentare che si definisce di sinistra, come quello di cui io faccio parte, sia favorevole a fare della casa di Gramsci un monumento nazionale non è di per sé sorprendente. Quello che mi preme sottolineare è, piuttosto, che le motivazioni dell’assenso di Sinistra Italiana su questo provvedimento vanno oltre il patriottismo di partito e vanno oltre la pur ovvia e legittima ascrizione di Gramsci a una precisa parte politica. Qui si tratta di un monumento nazionale il cui significato vale – dovrebbe valere – per tutti.
Qual è, dunque, questo significato ? Cominciamo dal capire che cosa significa la parola «monumento»: significa memoria, ricordo, e – in senso oggettivo – significa un luogo o un manufatto che reca alla memoria ciò che è degno di essere ricordato. In senso soggettivo è importante capire chi è che ricorda. In questo caso chi ricorda è la nazione, la quale ricorda un personaggio che l’ha fatta grande, non soltanto perché egli stesso è stato grande, cosa indubbiamente vera dato che Gramsci, insieme a Dante e a Machiavelli, è l’autore italiano più letto, tradotto e commentato al mondo – su di lui c’è una bibliografia, al momento, di circa 20.000 volumi -.
È stato grande non soltanto nel pensiero. È stato grande nella lotta politica condotta con coraggio personale, in condizioni non sempre facili, anche rispetto all’Unione Sovietica, all’Internazionale comunista e, a tratti, anche rispetto al suo stesso partito. Oltre, ovviamente, rispetto al fascismo che lo vide e lo considerò come l’arcinemico al cui cervello non si doveva permettere di pensare pubblicamente per almeno vent’anni. Ma è stato grande – questo è il punto – anche perché ha dato all’Italia un modo per pensare a se stessa. Perché è stato uno dei grandi mediatori dell’autocoscienza nazionale. Perché ha elaborato un’idea di Italia, un’idea non astratta ma sostenuta da una robusta e articolata cultura storico-politica che si è generata attraverso una riflessione complessa su Machiavelli, sul Risorgimento, sul Meridione, sul fascismo, sul ruolo degli intellettuali, sul partito. Una cultura non libresca ma concreta, che parla all’Italia dell’Italia. Un’idea, una cultura, che coinvolgono; davanti alle quali si deve prendere posizione; che obbligano a pensare. Un’idea fra le possibili certamente, ma che è importante per il peso specifico che ha, per la sua latitudine, per la sua capacità di abbracciarne altre, di dare rilievo ad altre.
La complessità e la grandezza di quel pensiero lo rendono e lo hanno reso conteso tra mille scuole; lo hanno esposto a mille interpretazioni; ne hanno fatto il terreno centrale di confronto e di scontro in merito al rapporto fra politica e cultura, tra teoria e prassi, fra strutture e soggettività. Attraverso Gramsci è stato affermato ora il primato della società civile, ora il primato dell’economia, ora il primato della politica, ora il primato della produzione. Non è questo il luogo, e manca il tempo, per dare anche soltanto un elenco sommario delle principali interpretazioni alle quali Gramsci è stato esposto: abbiamo avuto un Gramsci nazionaldemocratico; un Gramsci leninista; un Gramsci consiliarista; un Gramsci capace di superare il rapporto meccanico fra struttura e sovrastruttura; un Gramsci filosofo, criticato in quanto filosofo o apprezzato, al contrario, in quanto filosofo; un Gramsci gentiliano; un Gramsci liberaldemocratico post-statuale; un Gramsci mercatista; un Gramsci teorico della traducibilità delle esperienze e dei concetti da un contesto all’altro; un Gramsci talmente vivo che ancora oggi sono in corso nuove edizioni delle sue opere – edizioni anastatiche dei Quaderni e l’edizione nazionale degli Scritti –. Il suo pensiero, soprattutto oggi, è nel mondo anglofono il veicolo di una buona parte del pensiero critico, che è giunto quasi a sostituire la stessa fonte marxista nei Cultural Studies.
Gramsci è un monumento ma non una statua. Non è immobile ma è vitale. Questa contesa e questo confronto sul suo pensiero dimostrano che Gramsci non muore col Partito comunista italiano, che questo ne sia stato l’erede o il traditore. Il suo pensiero ci insegna, ancora oggi, l’analisi accurata e non sbrigativa della realtà. Ci insegna soprattutto a vedere nelle strutture sociali e nelle forme di vita, nei processi materiali e culturali, il segno del potere, dei dislivelli di potere; a vedervi le contraddizioni storiche reali che innervano la nostra società, le grandi tendenze della storia. Ci insegna la serietà e la grandezza della politica. Il pensiero di Gramsci è, insomma, un organismo ancora vivente, grazie proprio al suo spessore e alla sua complessità.
Ogni tempo ha il suo Gramsci o può averlo se si impegna a pensare la politica in modo coerente. Il pensiero di Gramsci non è necessariamente uno strumento di analisi, ma è, in senso lato, un esempio – uno fra i possibili – di coscienza critica, di alta valutazione della politica, di esercizio impegnato di questa. Il che fa di Gramsci un maestro etico, politico e intellettuale.
Insomma, non vi è alcun bisogno di essere gramsciani in senso ideologico per trovare giusto e ragionevole questo provvedimento di legge che fa della Casa Museo di Ghilarza un monumento nazionale, perché è giusto e ragionevole – direi necessario – che una nazione rifletta su se stessa attraverso la riflessione sui suoi grandi uomini. È giusto e necessario che una nazione si ricordi di se stessa, che faccia memoria di se stessa, ed è giusto che la politica, cioè questa Camera, sia promotrice di questa riflessione e sia promotrice anche di una politica che – anche se non è, come voleva Gramsci, la sostanza della filosofia e della storia –, si sforzi tuttavia di nutrirsi profondamente e sistematicamente di cultura, e di essere quindi qualcosa di più che non un disinvolto pragmatismo condito da molta narrazione e da qualche generico riferimento a «valori».