Sul finire di un corso di formazione per docenti, tenuto poco tempo fa in un liceo bolognese, Domenico Scarpa, studioso di Levi, della Ginzburg, di Calvino, ha letto quanto Natalia aveva scritto su Calvino ricordando il primo incontro. Lo stile asciutto e intimo, peculiare della scrittrice, ha riscaldato la figura dell’autore di cui si è celebrato il centenario quest’anno proprio come fa una stufa di coccio: l’ha riscaldato illuminandolo, e ha fugato le iperboli celebrative restituendolo a tutti noi lettori. Ne riportiamo alcuni passi.
Natalia Ginzburg, Il sole e la luna, «L’Indice», II, No. 8, 1985; «Riga» 9, ‘Italo Calvino. Enciclopedia: arte, scienza e letteratura’, a cura di Marco Belpoliti, Marcos y Marcos, Milano, 1995.
[…] M’accorgo che l’ho sempre visto come un ragazzo. Nemmeno avevo mai pensato che potesse invecchiare, trasformarsi in un vecchio zoppicante e canuto. E in verità non era, a ventitré anni, molto diverso nell’aspetto fisico da quello che divenne più tardi. Il tempo gli portò sulla fronte delle rughe orizzontali, e qualche ciuffo grigio sulle tempie: ma, nel fisico, non molto altro. Aveva, in giovinezza, la persona asciutta, prosciugata, svelta, diritta: e così rimase. Benché fosse così diritto nella persona, usava però, anche in giovinezza, ogni tanto incurvare le spalle, come se volesse raggomitolarsi in se stesso, e difendersi da interrogazioni importune. In giovinezza, spesso balbettava; e balbettava un poco, è vero, anche dopo; da ragazzo, di più. Molte volte sembrava tirar fuori le parole da una sacca segreta, o strapparle a fatica da qualche suo segreto gomitolo: e nel pronunciarle incespicava, aggrottava la fronte e abbassava gli occhi sulle proprie dita intrecciate, con una perplessità ironica e testarda, e come rifacendo il verso a se stesso. Anche se così tante volte tirava fuori le parole con fatica e lentezza, non parevano fatica e lentezza per nulla presenti nel suo pensiero, né in ciò che faceva; fatica, lentezza e balbuzie erano un modo di prendere in giro se stesso, e gli altri, e la propria maniera di stare al mondo. Quando l’ho conosciuto, quella sua balbuzie in parte vera e in parte simulata m’aveva colpito per un’allegria straordinaria che ne emanava: perché vi si nascondeva una meravigliosa facoltà di commentare comicamente la propria persona, e il prossimo, e le code pelose, irsute, squamose e infinite che serpeggiano dietro alle parole.
Ho conosciuto Calvino nell’inverno del ’46, a Torino, nella sede della casa editrice Einaudi, in un corridoio, davanti a una stufa. Era una mattina di neve, grigia e buia, e in quel corridoio era accesa la luce. La stufa era di quelle stufe di coccio, che vengono da Castellamonte, e che tingono le mani di rosso quando si toccano. Calvino lavorava all’Unità, allora, ed era capitato lì per caso, forse per chiedere qualche libro da recensire. Nella casa editrice, allora, eravamo in pochi: aspettavamo Pavese, che non era ancora ritornato da Roma, dove soggiornava da lunghi mesi. Abbiamo parlato molto a lungo, Calvino e io, in piedi davanti a quella stufa: chissà perché non abbiamo preso due sedie. Ricordo bene la stufa, e la neve di fuori; ma non ricordo di cosa abbiamo parlato; penso, di racconti. Calvino aveva scritto un racconto, Andata al comando, e l’aveva mandato a Vittorini per “Politecnico”; Vittorini gli aveva espresso qualche riserva. Il mio idolo, allora, era Hemingway, e seppi che era un idolo anche per Calvino; e il racconto di Hemingway, Colline come elefanti bianchi, l’uno e l’altra per averlo scritto avremmo dato dieci anni della nostra vita. Poco tempo dopo, Pavese è ritornato da Roma. Lui e Calvino sono diventati amici. Andata al comando è stato pubblicato su “Politecnico”. Calvino, credo per sollecitazione di Pavese, ha lasciato l’Unità ed è entrato a lavorare stabilmente nella casa editrice. Due anni dopo, Calvino e io siamo andati a Stresa a trovare Hemingway. Andavamo là per incarico della casa editrice. Eravamo felici di andare e timorosi che non volesse riceverci. Fummo accolti nella sua stanza. A un piccolo tavolo illuminato, non so perché, da candele, abbiamo finalmente potuto dirgli quanto avessimo amato Colline come elefanti bianchi.
A me e a Pavese, Calvino portava da leggere i suoi racconti. Erano scritti a mano, in una calligrafìa minuta, arrotondata e fitta di cancellature. Ci sembravano molto belli. Vi si scorgevano paesaggi festosi, immersi in una luce solare; a volte le vicende erano vicende di guerra, di morte e di sangue, ma nulla sembrava offuscare l’alta luce del giorno; e non un’ombra scendeva mai su quei boschi verdi, frondosi, popolati di ragazzi, di animali e di uccelli. Il suo stile era, fin dall’inizio, lineare e limpido; divenne più tardi, nel corso degli anni, un puro cristallo. In quello stile fresco e trasparente, la realtà appariva screziata, variegata, e colorata di mille colori; e sembrava un miracolo quella festosità, quella luce solare, in un’epoca in cui lo scrivere era abitualmente severo, accigliato e parsimonioso e nel mondo che tentavamo di raccontare non regnava che nebbia, pioggia e cenere.
Quando Pavese si è ucciso, abbiamo diviso insieme quella sventura, Calvino, Balbo, Giulio Einaudi e io. Questa sventura ci ha tenuti uniti, nel corso degli anni, era nelle più profonde radici dei nostri rapporti. E così ci hanno tenuti uniti altre perdite, anche se vivevamo in città diverse e percorrevamo diverse strade, nel corso degli anni. Nel ’56, Calvino ha pubblicato Le fiabe italiane. Penso che sia il più bel libro per l’infanzia che sia apparso in Italia, dopo Pinocchio. Lo dovrebbero leggere nelle scuole; forse lo fanno; ma dovrebbero farlo, penso, ancora di più. Lo stile, nelle Fiabe italiane, è rapidissimo e trasparente. Vi si impara la concretezza, la concisione, e una leggerezza di piuma; e regna, nelle Fiabe italiane, quella medesima luce festosa e solare che incontriamo nel Visconte dimezzato come nei suoi più antichi racconti.
[…] A poco a poco sono scomparsi dai suoi libri i paesaggi verdi e frondosi, le nevi scintillanti, l’alta luce del giorno. Si è alzata nel suo scrivere una luce diversa, una luce non più radiosa ma bianca, non fredda ma totalmente deserta. L’ironia è rimasta, ma impercettibile e non più felice di esistere, bianca e disabitata come la luna. In quel libro stupendo che è Le città invisibili, secondo me il più bello dei suoi libri, questa trasformazione è già avvenuta. Il mondo è là, radioso, multiforme, variegato e screziato, e intatto nel suo splendore: ma è come se lo sguardo che lo indaga, lo scevera e lo contempla sia consapevole di abbandonarlo per sempre.
[…] Sulle città, altissime sotto il cielo, brulicanti e splendenti, formicolanti di umani errori, traboccanti di merci e di cibi, affollate di traffici, dominio dei topi e delle rondini, cala il tramonto. Lo sguardo che le saluta è uno sguardo che dice addio, a un mondo molto amato, fissandolo da una nave che s’allontana.