In occasione di Artelibro, il Festival del Libro d’arte, dell’edizione 2007 la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna ha partecipato con la mostra “Grafica d’autore e comunicazione politica” allestita nella Sala D’Ercole di Palazzo D’Accursio a Bologna. Una selezione di manifesti tratti da Manifestipolitici.it, una banca dati on-line che conta oggi più di 14 mila testimonianze di carattere sociale e politico italiane e straniere, datate dai primi anni del Novecento ad oggi.
Sui pannelli della mostra sono stati esposti manifesti di autori come Luigi Boccasile, Marcello Dudovich, Albe Steiner, Ennio Calabria, Ettore Vitale, Renato Guttuso, Marco Caroli, Fabio Bolognini, Avenida, Nani Tedeschi, Armando Testa.
Quando la politica si fa arte. La grafica d’autore e la comunicazione politica
Introduzione alla mostra a cura di Andrea Baravelli, Università degli studi di Ferrara
Il rapporto tra mondo dell’arte e politica è un legame che si perde nei secoli. I potenti della storia, infatti, hanno sempre avuto ben presente il vantaggio che sarebbe derivato loro da un’adeguata rappresentazione della gloria e del potere. Strumento di comunicazione politica capace d’insinuarsi nelle pieghe dei secoli, l’arte rappresenta quindi un instrumentum regni di rara efficacia. Nell’epoca dell’infinita riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, può valere ancora questo rapporto? Nel secolo delle ideologie e dei partiti politici, il prodotto della riflessione artistica può ancora intersecare gli umori, la sensibilità e i codici comunicativi delle masse? Il nodo varrebbe una lunga discussione. Quel che si può notare è che, proprio grazie all’esempio fornito dai manifesti d’autore, l’arte sembra potere anche oggi conservare una certa efficacia ai fini della comunicazione politica. Nella storia dell’Italia repubblicana, il rapporto tra grafica e politica non ha mai perso d’intensità. Rispetto ai tempi passati, infatti, l’artista del ventesimo secolo ha guadagnato un’inedita capacità di lavorare per diverse committenze (l’imprenditoria, il mercato culturale, la politica, ecc.) e su differenti piani della comunicazione; così facendo egli ha saputo sviluppare un’inedita abilità nell’utilizzo di svariati registri. Insomma, se la politica italiana del cinquantennio repubblicano ha saputo sviluppare un linguaggio visivo in grado di mantenersi al passo con il variare dei gusti e degli umori dei cittadini una parte del merito deve essere attribuita al rapporto che la stessa ha sempre saputo conservare con il mondo dell’arte. Non si è trattato, però, di una relazione semplice. Non sempre le soluzioni prospettate dagli artisti furono accettate; non sempre furono ritenute in grado di contribuire a comunicare efficacemente l’idea politica. Tuttavia, agli artisti dell’immagine e della rappresentazione grafica la politica avrebbe chiesto aiuto ogni volta che avesse avuto bisogno di comunicare profondi cambiamenti e significative svolte politiche.
Il percorso della mostra si dipana affrontando alcuni periodi artistici considerati particolarmente significativi per la storia della comunicazione politica per manifesti in Italia. Si parte dalla tradizione rappresentativa più classica, quella che si avvale del disegno, della forte connotazione morale nell’uso dei colori e dell’esasperazione dei toni. Quel realismo descrittivo che ha la sua forma più conosciuta negli affiches pubblicitari degli anni Trenta, nelle tavole della “Domenica del Corriere” e nei manifesti per la Repubblica sociale fatti da Boccasile. L’utilizzo di questo particolare linguaggio, elaborato in oltre vent’anni di regime fascista, si sarebbe rivelato fondamentale per la politica comunicativa della Democrazia cristiana nel dopoguerra. Perfettamente funzionali alla strategia di esasperazione dello scontro che il partito di De Gasperi utilizzò nel 1948 e nei primi anni Cinquanta, i manifesti disegnati da Boccasile o Jacovitti rivelano come quell’Italia prostrata dalla guerra non fosse ancora capace di immaginarsi “altra” rispetto a ciò che era sempre stata. A fronte di quei manifesti vi sono quelli prodotti da alcuni grafici vicini al Partito comunista. Non esistendo nella propaganda comunista dei modelli narrativi di estrazione borghese, i manifesti elaborati per il Pci furono quindi più liberi di allontanarsi dal modello mitico ed emotivo utilizzato dai competitori democristiani. Le origini culturali dei manifesti composti da Steiner, Muratore o Veronesi si ricollegano alle avanguardie russe e tedesche; a Rodchenko e a Klutsis. La loro cifra è del tutto particolare ed estrememente riconoscibile: uso del fotomontaggio, funzione iconica delle scritte, accento sul significato collettivo dell’immagine (non è più disegnata bensì fotografata; dunque più “vera” rispetto al disegno). Anche se nell’immediato la comunicazione politica adottata dalla Democrazia cristiana sembrò premiare la conservazione dello stretto legame con il passato degli italiani, il linguaggio elaborato dagli artisti vicino al Partito comunista era quello che meglio rappresentava l’Italia in divenire. L’Italia che aveva il suo cuore pulsante in Milano, nella pubblicità commerciale e nell’incipiente società dei consumi di massa. Il percorso prosegue poi attraverso i manifesti satirici, modello culturale e rappresentativo della tradizione comunicativa italiana. Modo di rappresentazione che vedrà il contributo di artisti di primo piano lungo tutto l’arco dell’esperienza repubblicana. Infine, non può non essere sottolineata la “rinascita” grafica dei primi anni Settanta e Ottanta. Con la crescita e con l’affermazione di autori come Spera e Vitale, capaci di imprimere un valore del tutto nuovo al segno grafico e in grado di ribaltare per la prima volta il rapporto di forza esistente tra committenza politica e professionismo grafico. Sarà infatti con loro che la politica s’acconcerà a fornire solo l’obiettivo finale della realizzazione, lasciando all’autore la libertà di immaginare le strade e i mezzi per giungere al compimento di quello stesso obiettivo. Fu una stagione assai ricca di risultati. Al confronto, l’esperienza che stiamo vivendo oggi appare più deprimente. L’affidamento dell’intero processo comunicativo alle grandi agenzie di pubblicità, infatti, ha impoverito il rapporto, massificato i prodotti e annullato il ruolo d’interprete della società da sempre svolto dall’autore. Il manifesto politico, prodotto complesso – l’imponente cubo nella sala, con le sue facce che ne ricordano gli elementi costitutivi (ovvero: il testo, l’immagine, il colore e il segno) – e dotato di grandi virtù (l’economicità, la capacità di sintesi del messaggio, la flessibilità d’utilizzo), forse non merita questo destino.
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